lunedì 22 gennaio 2024

[Recensione] A TWISTED TALE - UN MONDO NUOVO, di Liz Braswell

Recensione del romanzo "A Twisted tale - Un mondo nuovo" (A Whole new World) di Liz Braswell (Aladdin spinoff, Disney)
Titolo originale:
 A twisted tale: A whole new world
Autore: Liz Braswell
Traduzione: L. Lupano
Edizione: Giunti
Pagine: 384
Anno: 2015


Premesse
Nonostante sia consapevole dei problemi del film animato, legati un po' alla trama, un po' ai buoni uno più scemo dell'altro che ti portavano a tifare per forza per Jafar (ma non più, dopo aver letto questo libro) o al fatto che sia un film figlio di un tempo in cui non c'era tutta questa attenzione e rispetto nei confronti di culture diversa da quella americana, sono una totale bimba di Aladdin. Quando mi toccano questo film mi irrito. Quando lo toccano dimostrando di non averlo manco capito, come nel live action, divento Black Mamba.
Quando ci cagano sopra come in questo libro, libri che una volta si chiamavano fanfiction ed erano gratis e più pieni di soddisfacenti scene porche, spero direttamente in una ribellione dei miceti stile The last of Us che spazzi via l'umanità.

DUE RIGHE DI TRAMA

Possiamo tranquillamente saltare un 25% abbondante di libro in quanto si tratta di un copia incolla abbastanza dimenticabile del cartone animato Disney, con qualche tentativo di fare dell'approfondimento che sfocia nell'infodumping: per esempio ci viene detto che il quartiere degli Straccioni è quanto resta delle ambizioni di un non meglio specificato antico Sultano che aveva voluto dare prosperità al quartiere con una serie di grandi opere, Sultano convenientemente assassinato da non si sa chi, forse perché troppo comunista.
Utilità di questa informazione?
Zero.
Ci si premura anche di presentare Aladdin da bimbo, l'unico in tutto il quartiere di disperati ad avere una madre buona che nonostante sia stata abbandonata da un marito in cerca di fortuna e sia rimasta sola a crescere un figliolo in un quartiere di tagliagole poveri in culo riesce a restare retta, orgogliosa, a tenere la casa accogliente e a trasmettere al figlio valori positivi. E già fin qui potevano direttamente ammantarla di un'aureola e rendere Aladdin il Messia in terra, ma a parte essere lezioso e bidimensionale al vomito è anche un personaggio che solleva tutta una serie di interrogativi.
A un certo punto infatti Aladdin dirà che la madre è venuta a mancare presto a causa del troppo lavoro. Tutto molto bello (si fa per dire), peccato che:

1) M'hai detto 3 paragrafi prima che ad Agrabah i poveri non trovano lavoro perché nessuno gli dà fiducia, dove si ammazza di lavoro questa? Non c'è dato modo di sapere, è una madre, è buona ed è morta, tanto basta: l'autrice non ci fa sapere se questa lava i panni, coltiva l'orto o fa la prostituta.
Dramatization: Aladdin e sua madre
2) Se il lavoro c'è e questa si sta letteralmente ammazzando di lavoro perché non l'aiuta il figliolo in salute?
3) L'autrice, sempre per fare volume nella prima parte di libro, si è premurata di presentarci un mercante di datteri che ha colto sul fatto Aladdin e i suoi amichetti e invece di andare dalle guardie lo spedisce a casa a farsi punire. La madre per punizione lo manda a lavorare al suo carretto. 
Quindi Aladdin di fatto lavorerebbe in cambio di beni, cosa che ci è stata detta non essere possibile perché, ripetiamolo tutti insieme, nessuno dà fiducia agli straccioni (eppure hanno abbastanza fiducia da essere mandati in castigo dalle mamme). Ma a questo punto che ci metteva sto ragazzetto invece di rubare ad andare ad aiutarlo tutti giorni per avere in cambio un po' di frutta secca per mangiare?

Madò e siamo solo all'inizio.

A un certo punto, dopo aver fatto un bel copia e incolla dei dialoghi (nel caso in cui una persona che ha deciso di comprare un fottuto what if di Aladdin non ricordi il fottuto cartone originale - ma al tempo stesso l'autrice è così incapace di dare approfondimento psicologico che se il lettore non ha già presente chi siano i personaggi si attacca al pappagallo), la storia bontà sua deraglia e una volta giunto alla caverna delle meraviglie e messo mano sulla lampada Jafar riesce ad agguantarla senza che Abu abbia l'intuizione di sgraffignargliela di nascosto. Quindi Jafar ha tra le mani da subito un genio onnipotente per ottenere la sua vendetta sul Sultano e ottenere il tanto agognato potere mentre Jasmine riesce a fuggire dal palazzo e a organizzare una rivolta per la libertà insieme ad Aladdin e agli Straccioni.
Da qui in poi a regnare sovrano è il delirio.

IMPRESSIONI SPARSE

L'autrice, che non sa scrivere, fa volume per tutto il tempo con dettagli inutili e a tratti pure gratuitamente schifosi come Iago che, cito: "non faceva che mangiare biscotti tutto il giorno, appollaiato sulla sua spalla. E a volte faceva i suoi bisogni direttamente sul mantello del Gran Visir, lasciando lunghe e disgustose scie bianchicce."
Non vivevo senza questa informazione, grazie Liz.
Tra l'altro a proposito di Iago, che manco a farlo apposta è uno dei personaggi che trovo più riusciti all'interno della Disney proprio per il suo non essere buono-buono o cattivo-cattivo ma più un egoista voltagabbana a convenienza con un certo limitato quantitativo di morale, dal momento che l'autrice è troppo impegnata a scrivere, letteralmente, cagate viene buttato ai maiali un potenziale niente male che lo riguarda. 
Nel romanzo infatti l'idea che salta fuori a spizzichi e bocconi è che lo Iago umanizzato così come lo conosciamo altro non sia che una fantasia delirante di Jafar, uno Jafar che in questo romanzo lo ha sacrificato stile Thanos (in quanto unico essere a cui voleva bene) a inizio storia per ottenere la lampada ma che nondimeno viene visto a più riprese intento a parlare con lui come se fosse ancora vivo. Veniamo a sapere addirittura che lo scopo di Jafar è riportare in vita i morti, e che in teoria a fine romanzo ci riesce (tenta Aladdin promettendogli di riportare in vita la madre), ma di Iago nessuna traccia, quando avrebbe dovuto farlo tornare in vita come prima cosa.
Insomma, altri dettagli inutili e fini a loro stessi.
Cazzate che servono a fare volume e a dare l'illusione di un background solido ma che di fatto non contribuiscono ad arricchire la personalità dei personaggi o a dargli un senso logico nel momento in cui deragliano dalla storia originale (che poi è lo stesso identico problema del live action disney, vedi Jasmine che studia una vita per fare la sultana e comunque non sa che la roba al mercato devi pagarla). Basti pensare che tutti i personaggi che non derivano dal cartone sono macchiette senza spessore.
Figurine bidimensionali che non si distinguono l'uno dall'altro, al punto che a più riprese mi domandavo.

Jasmine è un'altra.
Non fa in tempo ad "accettare il fatto che suo padre "fosse un essere umano come tutti gli altri, con le sue debolezze e i suoi limiti" e a rendersi conto che "doveva sforzarsi di accettarlo per quello che era e amarlo senza giudicarlo" (e quando sarebbe arrivata a queste conclusioni 'sta Confucio del Middle East, quando lo trovava a giocare coi pupazzi e gli aquiloni, quando le fanno notare che mentre lui gioca coi pupazzi e gli aquiloni la gente muore di fame o quando le presentava vecchi laidi perché doveva sposarsi col primo che passava entro i 16 anni?) che se lo ritrova lanciato dal balcone come primo gesto di insediamento del nuovo Sultano. 
Invece di fare la ola, dico io...
Non fa in tempo a ragionare sul fatto di dover per l'appunto fare la ola per la morte di questo deficiente che le si presenta Jafar con la proposta golosa di sposarlo. Proposta che inspiegabilmente non la vede entusiasta come credeva l'ex Gran Visir.
"No Miriam, io esco"
Decisamente più inspiegabile invece è il fatto che Jafar affermi a più riprese di aver bisogno di sposarla per consolidare la sua posizione, o che Jasmine abbia effettivamente in cantiere una qualche posizione consolidatrice che giustifichi il suo successivo farsi paladina della libertà e restaurare la propria autorità su Agrabah.
Mi spiego meglio.

Innanzitutto nel cartone Jafar da principio non ha tutte queste mire sessuali/matrimoniali su Jasmine, la trova anzi un insopportabile dito in culo, una bisbetica spaccamaroni che invece di starsene buona a fargli fare quello che gli pare come quel rincoglionito del padre pretende di mettere bocca nelle consuetudini millenarie ("Voglio sposarmi con chi dico io, fanculo la legge o la stabilità politica del regno!") o nelle scelte di gestione della giustizia ("perché hai messo a morte un ladro recidivo senza capezzoli con cui stavo per fare mlmlml? Kttv!!"). E' Iago a dargli l'idea di sposarla come mera manovra difensiva.
Se questa si sposa noi siamo fregati.
Se il marito rincoglionito diventi te non ci può mettere a morte.
Non fa una piega. Non fa talmente una piega come ragionamento che Jafar ci pondera su e solo DOPO aver coccolato questa idea e aver ottenuto il potere si arrapa al pensiero di darsi alla pazza gioia con una figliola giovane e soda, ma lui di fatto non deve consolidare un bel nulla. Vuole Jasmine perché è bona. E non ha senso che sia altrimenti.
Jafar è stato reso Sultano dal desiderio di un Genio.
Significa che lui è di fatto, legalmente, legittimamente, il Sultano di Agrabah ora, e Jasmine non è un piffero di niente a meno che il desiderio non venga annullato (cosa che nel cartone accade coerentemente: nel momento in cui Jafar diventa un genio, quindi uno schiavo, non può regnare su un cavolo di niente, e IL PADRE di Jasmine torna ad essere il capo politico, cosa che Jasmine NON POTEVA essere secondo la legge del suo paese). Non è come se avesse fatto un colpo di stato, cioè quello che paradossalmente farà Jasmine all'interno di questo libro, che di fatto andrebbe consolidato per evitare lotte intestine e continue, sanguinose guerre civili (a meno che non si sia ad Agrabah dove a quanto pare non ci sono pretendenti al trono o figure minimamente autorevoli a parte una quindicenne e tutti i capi della rivolta accettano di buon occhio di servire sotto di lei in un consiglio di stato).

Resta altrettanto inspiegabile il motivo per cui Jasmine a fine romanzo sia acclamata a furor di popolo quando lei è la figlia del cretino che affamava il popolo mentre giocava coi pupazzini e Jafar il Sultano magico che faceva piovere ricchezze e distribuiva pane.
L'autrice prova a giustificare l'odio crescente del popolo nei confronti di Jafar, peccato che come al solito lo faccia col buco del culo:

1) Jafar è cattivo perché in cambio del pane fa ripetere a pappagallo al bisognoso di turno un giuramento di fedeltà. Una cosa intollerabile, spacciata per una specie di voto infrangibile quando di fatto no, io posso pure dire che a Jafar darei il culo e il pane me lo danno lo stesso senza che lui esca fuori dalla tendina e pretenda veramente il mio culo.
Li immagino proprio dei morti di fame che trovano intollerabile fare un giuramento col mignolino in cambio della pancia piena, che brutta persona è Jafar, la libertà è più importante! A una certa forse pure l'autrice si rende conto che sta a scrivere una cazzata perché poi si dirà a caso che Jafar è uscito di testa e marchia la gente come le vacche. Perché? Ah, boh?
Aladdin a una certa ci prova a far presente la cosa a Jasmine, anche se con tono critico perché lui è diverso e lui alla pancia piena non ci pensa (e come lui ci saranno altre persone stufe di questa situazione, dice prima di andare in cerca di simpatizzanti. Ma ce la fai?), lei per tutta risposta si lancia in uno spottone elettorale: "Quando salirò al trono avranno sia la pancia piena che la libertà. E non solo. I bambini andranno a scuola. Tutti, indipendentemente dalla classe sociale e dalla religione. Maschi e femmine. Avranno l'opportunità di scegliere che cosa diventare da adulti. Non saranno costretti a rubare o a fare l'elemosina. Lo giuro."
Il suo sguardo era lontano, proiettato in un futuro che Jasmine aveva già immaginato in ogni dettaglio.
Ma è  solo dopo che si raggiunge il culmine del delirio, quando Aladdin le dice che grazie a lei lui e i suoi amici Straccioni hanno capito che i veri problemi sono la gente affamata. Ma perché non lo sapevate prima di incontrare la tipa che ha scoperto la povertà 5 minuti prima? Morgiana dice addirittura che la sua rete di ladri serve a sfamare e impiegare anziani e bambini che da soli non riuscirebbero a procacciarsi da mangiare.
Anche meno, Liz, dai, che Jasmine era quella che prima voleva solo sposarsi con uno che amava esattamente come del cartone, da dove salta fuori sta figlia di Sun Tzu e Jane Addams?
2) Jafar è cattivo perché si avvale di inquietanti squadre della pace per mantenere l'ordine, praticamente degli squadroni di Stormtrooper che si assicurano che la gente non delinqua e non trami contro di lui (ma poi non si accorge di Aladdin che li segue per tutta la notte)... Cioè, la stessa identica cosa che facevano al mercato le guardie del Sultano che ti tagliavano la mano se prendevi una cazzo di mela da una bancarella? A quanto pare no, perché visto che lo fa Jafar si cacano tutti sotto come se fosse arrivato il demonio o come se Jafar fosse pronto a pretendere fisicamente il loro pertugio anale.
3) Jafar è cattivo perché a furia di far piovere ricchezze dal cielo ha creato inflazione, la gente non può comprarsi da mangiare e ai ricchi tocca attaccarsi al piffero.
Ora, che la povera gente non possa comprarsi da mangiare è un bel problema a cui però si potrebbe ovviare tornando al baratto contornato dai panini al giuramento di Jafar. Tra l'altro si ignora, perché l'autrice non sa scrivere, il fatto che l'inflazione riguarda la sola Agrabah e che si possa molto semplicemente commerciare in cibo con carovane provenienti da altre città e poi autoregolamentarsi internamente.
Che abbia chiuso i centri di cultura, religiosi e proibito la magia perché non vuole concorrenza, o che abbia creato problemi ai ricchi a causa dell'inflazione (problemi di cui veniamo a conoscenza grazie ad un membro della gilda dei gioiellieri, Amur, che trova il loro covo segreto perché davanti all'ingresso ci hanno piazzato un simbolo grosso come un cartellone pubblicitario in stazione 'sti sveglioni) già è più sensato come motivo di malcontento, ma a questo punto sarebbe stato molto più logico che Jasmine avesse chiesto e ottenuto il sostegno dei benestanti e dei maghi, quelli che effettivamente hanno avuto da perderci dall'insediamento di Jafar, non dei morti di fame. Ma poi come avrebbe fatto la Braswell a portare avanti la moraletta del cazzo dei poveri che sono pure bravi e buoni, dando un senso a Jasmine paladina delle pari opportunità?

Ora, il problema di fondo di questo schifo di libro non è tanto che Jafar sia cattivo cattivo in modo assurdo o chi sia la fascia popolare che lo trova a ragione più cattivo tra i ladri, i gioiellieri o i rabbini (sì, ci buttano in mezzo pure i rabbini), ma che sia un cattivo del cazzo nonostante le premesse date dal cartone fossero ottime per riuscire a farne addirittura un antieroe non dico da appoggiare ma perlomeno da comprendere, volendosi impegnare.
Di base Jafar è l'unico personaggio di questo film che sembra avere autorevolezza, intelligenza, cultura ed esperienza politica, in pratica risulta su carta davvero il più qualificato per regnare su Agrabah, almeno finché non sbrocca accecato dalla propria sete di potere (la stessa brama che prova per Jasmine lo distrae e consente ad Aladdin di arrivare a un passo dalla lampada - perché sì Liz, l'obiettivo intelligente sarebbe mirare alla lampada, non darsi a spadate e giocare al tira e molla col bastone di uno stregone). Sarebbe stato intrigante addirittura che il libro fosse stato scritto proprio dal suo punto di vista, per avere una finestra nuova sulla storia che già conoscevamo e che, ricordo, occupa un quarto di questo libro.
Le foreste muoiono, Liz!
In questo libro Jafar non è ambizioso né astuto: è cattivo perché è pazzo ed è pazzo perché nessuno lo ama (a parte il pappagallo che lui stesso ha deciso di uccidere a inizio libro, scelta che non ha senso se a smuoverlo era il desiderio di essere amato) e nessuno lo ha mai amato (ci dice Jasmine, ma lei che ne sa?), poi da qualche parte ti dicono che era povero di famiglia quindi in teoria dietro ci dovrebbe essere anche un desiderio di rivalsa che lo contrappone ad Aladdin che invece è bravo e umile, ma è tutto fatto così ad mentula che a una certa ci si smarrisce.
Non basta farli giurare sui panini, ora li marchio come le vacche!
Non bastano i soldati fantasma, ora resuscito direttamente i morti della città.

Ma del resto è il degno contraltare di un eroe che più vomitevolmente buono di così non potrebbe essere: dite addio al ragazzo di strada che offre il suo pane agli orfani ma decide di aiutare una ragazza al mercato perché è bona, e per ottenere quello che gli fa comodo mente a piè sospinto. 
Questo Aladdin non pensa alla pellaccia nemmeno a pagarlo ma solo agli altri e al bene del paese: è altruista, generoso, per nulla avido, vive per il ricordo di mamma' e dei suoi ideali e non ha alcuna personalità al di fuori del suo desiderio di salvare tutti. Fa sembrare quello del cartone originale il protagonista di un film di David Lynch e porta l'infantilismo a un livello completamente inesplorato.

I personaggi e la trama si muovono come burattini a mera convenienza, manca a più riprese la coerenza interna oltre a quella con il cartone originale che sarebbe anche in parte giustificata dal momento che a una certa la trama deraglia dai binari.
Un breve e veloce elenco perché qua stiamo facendo notte: 

1) Ci viene detto che Jafar non è astuto (e in effetti quando la palla passa alla fantasia della Braswell si comporta come un totale deficiente) quando finchè la trama ha seguito i binari del cartone ha letteralmente fatto fessi tutti, compreso un ragazzo di strada dalle mille risorse;
2) Viene fatta una sparata antifemminista sull'inutilità delle donne in battaglia da un personaggio di contorno che sta prendendo parte a una ribellione per mettere sul trono una femmina che si è alleata con un capo dei ladri femmina, e tutti obbediscono alle suddette femmine senza problemi;
3) Ci viene detto che per via di un incantesimo di Jafar i morti tornano in vita e diventano parte del suo esercito obbediente, al punto che Jasmine deve decapitare un suo alleato per farlo restare morto. Qualche capitolo dopo Aladdin uccide due tizi in un corridoio e restano morti senza che debba decapitare nessuno dei due;
4) Il sultano, proprio come i morti, è il sultano di Schroedinger: è sia il deficiente che giocava coi pupazzi quando il popolo moriva di fame quindi il primo responsabile della delinquenza e della povertà ad Agrabah (quella che ha ucciso la madre di Aladdin, vorrei ricordare) sia quello bravo che va paragonato al malvagio Jafar, dipende se ad Aladdin serva fare o meno un pippone motivazionale pro Jasmine;
5) Jafar dice ad Aladdin di aver trovato il modo di riportare in vita i morti per benino e lo tenta per far tornare in vita sua madre. Due pagine dopo gli dice "Peccato che tu non abbia nessun parente o una persona che ti ami, altrimenti li farei materializzare qui, davanti a te, e ordinerei loro di ucciderli".
Tra parentesi in quest'ultimo caso stiamo parlando di copie fatte di fiamme: che ci metti a dargli la forma di Jasmine, uno, e cosa se ne frega Aladdin o chiunque altro in quella stanza di prendere a spadate una copia fatta di fuoco? Per non parlare della rivoluzione che sembra l'organizzazione di un picnic aziendale con qualche bomba incendiaria in più, che fa colore.
D'altronde sono mediorientali, far saltare in aria le cose è il loro mestiere.

Un delirio che si somma all'assoluta noncuranza con cui la Braswell inserisce nel romanzo elementi di culture diverse dalla sua: parla per tutto il tempo di Golem per descrivere quelli che sono letteralmente degli zombie, tira in ballo i rabbini a caso, sono mediorientali quindi devono mangiare solo Baklava e ogni tanto, bontà loro, dei datteri.
Esisteva Google nel 2015, una ricerchina poteva farla.

IN CONCLUSIONE. . .

Un mondo nuovo è un romanzo infantile e stupido come poteva partorirlo giusto un'americana con la testa ficcata nell'orticello a stelle e strisce di casa sua, con personaggi dimenticabili, trama incoerente, un lieto fine attaccato con lo sputo (Jafar muore portandosi dietro la magia usando l'ultimo desiderio del Genio - perché desiderare di tornare sano era troppo mainstream - di modo tale che ci vorranno anni a dir bene per ricostruire la città e portare avanti il grande piano di Jasmine, e invece di decapitare la femmina bugiarda la portano in trionfo acclamandola come eroe e liberatrice mentre il genio piange perché essere umano fa schifo. Ti capisco bro), con qualche idea buona qui e lì che però l'autrice non riconosce perché non è in grado di dar vita a un buon romanzo e quindi non sfrutta come dovrebbe.
Meno di 400 pagine che sembrano 4000.
Una roba talmente offensiva per l'intelligenza umana che ho rivalutato il live action.

Giudizio finale:

martedì 9 gennaio 2024

[Recensione] THE HOLE, di Hye-Young Pyun

Recensione di "The Hole", di Hye-Young Pyun
Titolo originale:
 
Autore: Hye-Young Pyun
Traduzione: L. Iovenitti
Edizione: Mondadori
Pagine: 175
Anno: 2017


Suggerisco per questa recensione di saltare direttamente alle conclusioni per decidere se leggerlo o meno perché qualsiasi riflessione si voglia fare su questo romanzo contiene SPOILER, e The Hole è un romanzo che a mio avviso va scoperto da sé. Altrimenti proseguite pure ma a vostro rischio.


The Hole nasce come sorta di spin off di Caring for Plants un precedente lavoro commissionato all'autrice per una rivista letteraria, spin off reso necessario dal fatto che a detta della stessa Hye-Young Pyun Oghi e sua moglie non avessero concluso il loro arco narrativo.
Così nasce The Hole, opera dal titolo la cui sfumatura va per forza di cose a perdersi nella traduzione: il termine coreano 홀 (hol) infatti non è solo la traslitterazione dell'inglese hole, che indica un buco, ma anche un prefisso coreano che significa "solo", e va ad indicare nello specifico qualcuno che è rimasto vedovo, proprio come il nostro protagonista Oghi, che ha perso la moglie a seguito di un incidente d'auto.
Nel corso dello stesso incidente Oghi, che era al volante, subisce gravi lesioni che lo lasciano quasi del tutto paralizzato, e da uomo di successo che era (professore universitario che sulla soglia dei 40 anni è riuscito a costruirsi una solida carriera accademica a dispetto degli studi in geografia e cartografia che non ti fanno piovere esattamente addosso le occasioni) diventa un vegetale: quasi totalmente incapace di muoversi (riesce a muovere, poco e male, il braccio sinistro) e comunicare se non attraverso lo sbattere delle palpebre che gli consentirà solo di rispondere sì o no alle domande che gli vengono poste, Oghi è alla completa mercé dal prossimo.
Dopo un breve soggiorno in ospedale tornerà a casa dove sarà l'unico membro della famiglia che gli è rimasto, sua suocera, a prendersi cura di lui.

Il punto di vista di Oghi, la nostra unica voce narrante, è fin dall'inizio angosciante e claustrofobico, perfetta rappresentazione di un uomo solo, incapace di comunicare i suoi pensieri al prossimo: il romanzo è una finestra su una mente intrappolata in un corpo morto e che non riconosce più come il suo, non solo perché non risponde più ai suoi comandi ma anche dal punto di vista meramente estetico dal momento che l'incidente lo ha lasciato gravemente sfigurato. 
Persino la casa in cui ha vissuto per tanti anni gli pare estranea: il giardino che sua moglie curava quasi ossessivamente è morto tranne l'odiato rampicante che ha ormai invaso tutto il lato posteriore dell'abitazione; la camera da letto, che diventerà per questo nuovo Oghi il mondo, è trasformata nella stanza di un degente.

Inizialmente non possiamo far altro che rattristarci per Oghi e per la sua situazione, biasimare chi lo circonda per averlo abbandonato nel momento di maggior bisogno o l'atteggiamento abilista di una società che abbandona i pesi morti, senonché man mano che la narrazione prosegue e il protagonista si fa scappare di bocca qualcosa che forse non era sua intenzione condividere diventa sempre più difficile fidarsi del punto di vista del narratore o anche solo simpatizzare per lui.
Scopriremo infatti che la carriera tanto faticosamente costruita si è basata su menzogne, arrivismo e piaggeria. Il matrimonio è allo sbando da tempo e lui ci si stava aggrappando solo per pigrizia, e per il testardo attaccamento all'idea di una vita pacata di stampo alto borghese dopo un'infanzia da fallito. Non si lesinano alla tanto amata moglie critiche sul modo in cui sta perdendo tempo e sprecando la vita in attività poco proficue, abbandonando (a detta sua) alle prime difficoltà ogni progetto che la vedeva inizialmente entusiasta (tranne il suo giardino), il tutto condito da paternalismo benevolo alla "ma sì che si incapricci con le piante, tanto la mantengo io".
Eppure la colpa non è mai sua.
E' la moglie ad essere strana, che non si impegna abbastanza per la loro felicità (o per la propria, dando a intendere che sia il suo modo di vivere la renda infelice e non il comportamento di un marito assente che pensa più a fare spunte sui successi della sua vita che a tenere insieme il loro rapporto), è il collega di lavoro che ha fatto delle cose per cui Oghi ha dovuto denunciarlo ai superiori, è la sua giovane studentessa che si è fatta avanti e l'ha provocato portandolo ad allacciare una breve relazione con lei, e poi è roba vecchia, e poi lui non l'ha mai confessato quindi al momento sono solo fantasie paranoiche della moglie. 
Una cosa non sapremo mai: se l'incidente sia stato davvero un incidente e chi sia il responsabile. L'unica cosa che sappiamo è che Oghi non avrebbe mai voluto essere presente a quell'incidente, affannato com'era a inseguire il sogno di una vita tranquilla e senza scossoni.

Ci si comincia a chiedere quanta acqua stia tirando al suo mulino per suscitare la nostra compassione, quanto stia omettendo volontariamente parandosi il sedere dietro l'amnesia da shock, di modo tale che la nostra percezione cambia, la simpatia fa spazio al fastidio man mano che il buco, lo hole, una vera e propria macchia nera che apre ogni capitolo del romanzo si va ingrandendo, e persino quelli che a conti fatti sono i suoi carnefici o semplicemente persone di merda che lo abbandonano non assumono più le tinte da villain abilisti ma semplicemente di persone che non sono più tenute dalle convenzioni sociali a mostrargli simpatia e rispetto.
Oghi, se ci si riflette col senno di poi, risulta anche così egocentrico che è l'unico a possedere un nome: nemmeno la moglie, quasi che fosse una figurina di cartapesta persa nei ricordi, un personaggio di poco conto esattamente come il fisioterapista, la badante o sua suocera.

La suocera, che si tiene a specificare sia di sangue misto (per metà giapponese, etnia non particolarmente simpatica ai coreani e il sentimento è reciproco visti i poco piacevoli trascorsi storici) viene inizialmente trattata come una figura affascinante, incomprensibile e misteriosa su cui Oghi si sofferma molto poco, e solo per accantonare le sue stranezze come una caratteristica di razza, manco fosse uno Shiba Inu.
E' giapponese, per forza tiene le urne dei morti in casa.
E' giapponese, per forza parla da sola nella sua lingua ed è elegante e taciturna.

La suocera di Oghi, dapprima famiglia e poi l'aguzzina che gli ruba i soldi per darli ai santoni pseudocristiani, umilia Oghi in più occasioni, gli fa terra bruciata intorno, lo isola dal mondo e trascura i suoi bisogni, è anche una persona che ha perso l'unica cosa che amava al mondo, sua figlia. Una figlia che come ultima fatica letteraria (e con la stessa costanza riservata al suo bel giardino) aveva scritto e lasciato in bella mostra nello studio un j'accuse proprio ai danni del responsabile della sua infelicità (un'infelicità in cui forse la stessa suocera si rivede, essendo stata intrappolata in un matrimonio infelice con un fedifrago che a causa del suo tradimento ha pure perso il posto di lavoro, ma non lo sapremo mai dal momento che Oghi pensa sempre e solo a Oghi, cosa che a una certa diventa anche giustificabile). Un responsabile che ora è alla sua totale mercé.
Può definirsi un comportamento eticamente giustificabile?
No, ma è umano, proprio come quello di Oghi.

IN CONCLUSIONE. . .

Shiba finale, just 'cause.
The Hole
è un romanzo dalla tensione fortemente psicologica che può lasciare delusi se ci si aspetta una conclusione fatta e finita o anche solo comprensibile, un racconto che fa della suspence e del non detto il suo punto di forza, e che va letto con calma e attenzione a dispetto della brevità per cogliere tutti i non detti. Come buona parte della narrativa orientale si appoggia all'idea che la vita sia composta in buona parte da mistero e non si debba proprio raccontare tutto-tutto, o dividere tutto in buoni e cattivi tagliati con l'accetta. 
Frustrante ma tocca accollarselo.

Richiama a Misery di Stephen King come promette la quarta di copertina? Meh... Impossibile non fare paragoni dal momento che parliamo di una persona alla totale mercé del suo carnefice, un carnefice che lo conosce intimamente (dal punto di vista professionale in King, dal punto di vista di un defunto in Hye-Young Pyun), di un orrore che nasce dall'idea di non poter disporre del proprio corpo e di non poter comunicare. Dall'essere lasciati insomma completamente soli e in mano a una persona altrettanto sola che però ha il potere di disporre di noi a suo piacimento, senza limiti legali o morali a trattenerla.
Ma The Hole è un libro che non vuole fare orrore o improntarsi sul mistero ma concentrarsi specificatamente sull'isolamento (che non è solo l'isolamento causato dalla malattia di Oghi ma da una mancanza di comunicazione endemica e generalizzata): parla soprattutto della vita, di quanto sia effimero e vuoto quello che consideriamo successo, e di quanto in ognuno di noi (anche in Oghi, anche prima del suo incidente) ci sia un buco (o una solitudine, se vogliamo far fede al termine coreano) pronto ad espandersi e a inglobare tutto se non si fa tutto il possibile per prendersene cura, proprio come la moglie di Oghi faceva col suo giardino. Oghi insomma era solo già da prima di diventare un "peso per la società" e "l'assassino di sua moglie" e tutti i successi di cui andava così fiero (a dispetto di quelli che alla sua età facevano i conti col fallimento, sua moglie compresa) erano fuffa.
Così come sua suocera era sola da prima di perdere fisicamente sua figlia, anche se la vediamo spesso parlare tra sé e sé in giapponese, una lingua che Oghi non conosce (ancora una volta, incomunicabilità), si presume coi morti: una sorta di auto-inganno, come quello dell'Oghi di successo (o nel breve momento in cui è convinto di star muovendo le gambe).

Insomma, una lettura per gli amanti dei flussi di coscienza psicologici più che per quelli dell'orrore, che taggo nel genere horror un po' a martellate. Non gli do un voto pieno perché sono una di quelle anime belle che il finale lo vuole o si sente presa per i fondelli, con buona pace dello stile della sensibilità orientale.

Giudizio finale:

sabato 6 gennaio 2024

[Recensione] THE DOME, di Stephen King

Recensione del romanzo The Dome di Stephen King
Titolo originale:
 Under the Dome
Autore: Stephen King
Traduzione: T. Dobner
Edizione: Sperling & Kupfer
Pagine: 1036
Anno: 2009

Premesse:
Si comincia questo 2024 alla grande. Letteralmente, considerando la mole del romanzo che in italiano si è pensato bene di tradurre con un titolo inglese ma eliminando la parola Under presente in originale. Termine difficile per il frequentatore di librerie nostrano, che è ancora fermo alla lezione di Duolinguo in cui the pen is on the table. 

Ora, voglio premettere che non sono mai stata una Bimba del Re dell'incubo, posto che l'unico incubo per quel che mi riguarda è sempre stato approcciarmi ad un suo romanzo a parte poche eccezioni (Unico indizio la luna piena, Misery, Ossessione). La mia decisione di leggere questo romanzo però non è stato dettato dal desiderio di spalare popò su un autore molto amato per il puro gusto di veder scattare sull'attenti i fanboy ma dalla pura e semplice curiosità e con tutta la migliore disposizione del mondo.
Però, come il maccarone, se mi provochi io me te magno.

DUE RIGHE DI TRAMA

Attorno al 2012 (non si fa riferimento a un anno preciso perché in The Dome anche il tempo, come il male, è oscuro ma da qualche parte nel libro si fa riferimento alla rielezione di Barack Obama) alle 11:44 del 21 ottobre attorno a una piccola cittadina del Maine, Chester's Mill, compare una barriera invisibile, semipermeabile e indistruttibile.
Non si sa da dove arrivi, chi l'abbia messa lì o perché.
E' Dale "Barbie" Barbara, cuoco presso la tavola calda locale che sta cercando di abbandonare la giurisdizione a causa di una disputa avuta con un gruppo di cattivi soggetti del posto per questioni di figa (e quando ti sbagli?), il primo a prendere atto del peculiare e spaventoso fenomeno senza schiantarsi di faccia contro quella che verrà chiamata la Cupola, mentre intorno a lui tutta una serie di comprimari sacrificabili gli si spalmano attorno tipo le mosche contro i vetri.
Dramatization: le prime 100-150 pagine
di questo romanzo
Da qui, in una settimana scarsa, le cose per Barbie e per gli abitanti di Chester's Mill degenerano così rapidamente e a tratti forzatamente che la crisi fa il giro e il libro diventa la parodia di un postapocalittico che vorrebbe dimostrarci quanto sia facile per una massa spaventata (ma soprattutto malguidata) regredire allo stato bestiale
, grazie soprattutto ai perfidi intrighi da villain dei cartoni animati del secondo consigliere e venditore di auto usate di Chester's Mill, "Big Jim" Rennie, un tizio ovviamente grasso e disgustoso, come nella tradizione del politico arraffone (Stephen ci regala come sempre metafore sottili come un tronco di quercia) che ha come sogno del cuoricino quello di dominare un paesello di 2000 anime in cui di fatto fa già il cazzo che gli pare da anni e che nel tempo libero ha messo su il più grande laboratorio di Metanfetamine degli States dando tutto in mano a un drogato delirante che si pippa metà di quello che produce.
Cosa potrebbe andare storto con queste premesse?
Dramatization: Big Jim Rennie e il capo coglione
della polizia, Peter Randolph

IMPRESSIONI SPARSE

Il fatto che sia arrivata alla fine di The Dome implica che in qualche modo King sia riuscito a tenermi ancorata alla storia e a incuriosirmi quel tanto che bastava a voler vedere dove si voleva andare a parare. E la trama in effetti è intrigante almeno finché non scade nelle sue stephenkingate deliranti e non inizia a tirare fuori lunghe e gratuite digressioni sulla merda, invasati religiosi, deliri da droga, visioni a cazzo di cane e alieni-bambini che usano l'umanità come un Tamagotchi. Pure questi alieni tra l'altro, come il male, sono rigorosamente senza volto, al punto che a una certa viene da pensare che King semplicemente glissi perché non sa descrivere queste entità lontane e impercrutabili esattamente come non sa descrivere i suoi personaggi se non quando uno sguardo maschile si sofferma sulle puppe o i culi di qualche femmina (Compresa una vecchia con il culo ammaccato di cui ridono pure gli infermieri dell'ospedale. Come nei cinepanettoni, basta che si parli di culi e tutto fa brodo, pure una vecchia che si poteva far male per davvero vista l'età), quindi si appella a forme vaghe per sbrigarsela facilmente e passare al libro successivo, che qua si deve incassare. Belli e tensiogeni anche quei piccoli sprazzi di foreshadowing gettati qui e lì nella narrazione (non quelle troiate di visioni). 
In particolare poi due cose non facili riconosco a King, il fatto di riuscire a mettere nel panierino della narrazione una mole considerevole di personaggi senza far perdere il filo neppure a me, che fatico molto a destreggiarmi nei romanzi corali perché non mi ricordo mai di chi minchia si stia parlando (anche se non sempre riesce a gestirli bene tutti e ogni tanto qualcuno scompare dai radar e vafangu', tipo Buddy, il golden retriever dei Freeman), e la capacità di creare scene corali di azione e drama molto efficaci e dal piglio cinematografico in cui nei momenti di massimo caos, come la scena dell'assalto al supermercato o quella dell'incendio di Halloween, in cui tante cose accadono nello stesso momento, si ha la vivida impressione di una telecamera che si muove con eleganza tra i personaggi.
Bravo Stephen, scena d'azione meravigliosa.
Scena dell'incendio quasi be like:
Ma per quel che mi riguarda i lati positivi del romanzo finiscono qui.

The Dome è infarcito di forzature.
Se libri come Il signore delle mosche pestano sul pedale hobbesiano dell'uomo intrinsecamente bestia che se non fosse per quella sottile patina di civiltà con cui ama ricoprirsi non sarebbe diverso dalle scimmie all'inizio di 2001 Odissea nello spazio, King questo pedale lo sfonda direttamente a calci e poi non pago ci caga sopra. 

Neanche si è ancora identificata la cupola che già abbiamo due omicidi truculenti a caso ad opera di Junior Rennie, figlio di Big Jim. Junior ha continui mal di testa, QUINDI secondo i canoni di King ha per forza di cose un tumore al cervello che lo sta lentamente ma inesorabilmente uccidendo, portandolo a uscire di senno e ad avere reazioni spropositate, come scoparsi cadaveri marcescenti e delirare come un povero stronzo nel disinteresse generale. Il senso di questa scena (e di molte altre all'interno del romanzo, ma voglio tornarci dopo) è farci capire con dei disegnini a prova di stupido che i cattivi sono cattivi.

Subito dopo a Duke Perkins, capo della polizia locale, arcinemico storico di Big Jim e a quanto pare unico essere pensante della giurisdizione di Chester's Mill, nel toccare la cupola esplode convenientemente il pacemaker di modo che il secondo consigliere abbia la strada ancor più spianata del solito per creare il suo piccolo regime dittatoriale di 20 miglia quadrate in croce, nominare un nuovo capo della polizia coglione e compiacente e mettere in mano delle armi a una pletora di ragazzini uno più rincoglionito e violento dell'altro per farne la nuova milizia cittadina. Manco i genitori intervengono a sollevare un'obiezione.
Ed è subito Petoria.

Le cose poi degenerano troppo in fretta anche per i canoni del genere (il che è paradossale se si pensa che stiamo parlando di un libro di 1000 e passa pagine) e tutto va veramente troppo liscio per Jim Rennie, che si ritrova praticamente fin da subito a governare da solo e a fare il cazzo che gli pare (rendendo di fatto inutili i suoi piani da supervillain o il suo bisogno di trovare un capro espiatorio in Dale Barbara, lo straniero) visto che il primo consigliere Andy Sanders è la sua propaggine anale da prima che gli muoia la moglie (almeno finché non scopre la droga) e la terza consigliera Andrea Grinnell decide proprio adesso di smaltire in casa la dipendenza da farmaci.
Signora, complimenti per il tempismo.
Capisco che il ritrovarsi in situazioni atipiche possa potenzialmente tirare fuori il peggio della gente, che la paura e l'incertezza possano portare a spegnere il cervello e ad appoggiarsi alle vuote e rassicuranti promesse di un coglione che poi nell'ombra trama per esacerbarli questi animi (ed effettivamente basta un niente per fare carambola, se sai che boccini colpire), ma qui si scatena l'inferno in nemmeno 7 giorni, giorni in cui il grocer store è pieno di provviste, il diner locale resta SEMPRE aperto per offrire cibo (sandwich freddi per lo più ma comunque cibo), la benzina abbonda (e anche finisse, è una piccola circoscrizione che si può attraversare a piedi in mezza giornata) e il clima è così mite che quasi non c'è bisogno di riscaldamento. Invece King, che deve darci orrore a secchiate, pesta a tavoletta sul pedale del drama col risultato di regalarci una narrazione pacata come una performance di Nicholas Cage.
Dramatization: il reverendo Coggins

I personaggi sono macchiette tagliate con l'accetta.
La cosa più interessante quando ci si approccia a un film, serie tv, libro o videogioco post-apocalittico, almeno per quanto mi riguarda, è vedere come ne vengono influenzate le persone normali, osservarle cambiare, mettere in dubbio la loro morale, lottare con unghie e denti per restare umani against all odds o di contro scivolare verso il baratro della follia o del male.
Qui è tutto ridotto al minimo sindacale: i cattivi sono già cattivi che più cattivi non si può e i buoni al massimo digievolvono in rincoglioniti.
Big Jim truffa, inganna, corrompe, pratica strozzinaggio, ruba dalle casse comunali e convoglia i soldi delle tasse nel cazzo che pare a lui, come padre e come marito è una merda emozionalmente stitica, non volendoci far mancare nulla dalla lista del perfetto villain è anche appassionato di basket femminile del liceo (giusto per parlare di qualche altro culo giovane fresco e sodo, con la scusa che in realtà segue il basket femminile perché le femmine sono più cattive in campo - pure i suoi hobbies mirano alla cattiveria). Non pago di ciò per farci capire che questo cattivo è proprio cattivo King ci dice anche che è il più grande produttore di droKa del paese, con gli introiti che vanno a finire ovviamente in conti esteri segreti.
Junior manco sa ancora che c'è una cupola ed è già pazzo vi dico, paaaaazzo: ha mollato la scuola, ha problemi disciplinari, strangola senza particolari riflessioni o crisi di coscienza due ragazze sue amiche e nel corso dei giorni successivi l'autore ci tiene a farci sapere che si scopa i loro cadaveri con tanto di commenti per nulla gratuiti tipo mhmmm che bella la puzza di morto (tipo il mio cane quando mi lecca i piedi, ho pensato, e addio pathos). I poliziotti assunti da Big Jim, tutti ragazzini con problemi disciplinari ma dal finire in punizione perché ti fai le canne a fare il criminale sociopatico ce ne passa, a meno che non si sia in un romanzo di King, non appena hanno una pistola in mano vanno in giro a stuprare in branco e uccidere gente come se stessero facendo una scampagnata nei prati.
Manca insomma qualsiasi complessità morale o psicologica.
In questo modo più che inorridire piacevolmente per la bassezza insita nell'animo umano ho solo l'impressione di un King convinto di dover ficcare queste scene a martellate all'interno dei suoi lavori, per fare volume e per far fare le seghe ai suoi fan, che vogliono merda, teste che saltano, mascelle slogate e fighe sfondate, e tanto basta.
A un certo punto l'autore forse si accorge di avere davanti delle ridicole figurine di cartapesta che si apprestano a intraprendere una Civil War ancora più stupida di quella cinematografica e prova a rendere i personaggi di Chester's Mill meno bidimensionali e ad arricchirli (protagonisti e comprimari) con luci ed ombre, ma il risultato è il più delle volte demenziale.
Un personaggio secondario, un certo Rory, descritto a più riprese come il ragazzo più sveglio della sua famiglia che a scuola prende sempre ottimi voti e destinato a compiere grandi cose lontano dalla fattoria dei genitori, decide che il modo migliore per liberarsi di una cupola che ha accartocciato come una fisarmonica un aereo e un camion con rimorchio è spararle contro con il fucile del padre, con l'ovvio risultato di piantarsi un proiettile di rimbalzo in testa e morire dissanguato come uno stronzo.
Pensa se era stupido.
Frankie e Junior dopo aver stuprato, ucciso, molestato e preso a botte la qualunque diventano improvvisamente delle paste con due bambini carini rimasti da soli al momento della discesa della cupola (salvo poi tornare stronzi una pagina dopo). La reverenda Piper a una certa pare pronta per interpretare il reboot di John Wick con tutto un pippone sulla sua prorompente e incontenibile rabbia giovanile che chissà dove l'avrebbe condotta se non avesse deciso di dominare gli impulsi e donarsi a Gesoo, e finisce con lei che dopo aver estorto con violenza una confessione a una povera crista stuprata per farsi dare i nomi dei suoi aguzzini dà uno spintone a uno di loro che per tutta risposta la pesta a sangue insieme ai suoi compari e le ammazza il cane.
Comunque meglio di quelle fave di Brenda Perkins e Andrea Grinnell, che sembravano sveglie, che chissà che pareva dovessero fare coi documenti che riportavano tutte le porcate di Big Jim redatti dal defunto capo della polizia, e invece niente, abbiamo scherzato per 1000 pagine.

Che non ci si dimentichi che in questa sagra della salsiccia che è Chester's Mill le domande giuste le fanno i maschi e le donne servono perlopiù come madri o mogli: servono a farsi stuprare, ammazzare, a uscire di testa nei momenti di crisi, a pensare ai bambini (pure la giovane ricercatrice Carolyn Sturges che voleva dedicare la vita alla carriera basta che passi 2 giorni con dei bambini frignoni mai visti prima per scoprire quanto è bello sgravare) o a supplicare gli alieni per far loro tenerezza con le nostre misere vite da poveri stronzi.
Son soddisfazioni.

Infine, ultimo ma non ultimo, in questa carrellata di personaggi finto profondi c'è il nostro protagonista, quello che immancabilmente tutte le femmine di qualsiasi età del posto occhieggiano con fare voglioso una volta o l'altra (che vadano al liceo o siano signore di mezza età poco conta, l'importante è che si sappia che è un pezzo di manzo di prima scelta), Dale "Barbie" Barbara: Barbara, si scoprirà molto presto, non è solo un cuoco di tavola calda ma un ex militare di stanza in Iraq che in un momento poco edificante della sua carriera avrebbe pestato a sangue e ucciso insieme ad altri commilitoni due iraqeni sospettati di aver preso parte a un attentato.
Potrebbe essere un bel momento per un autore americano di smettere di fare i segoni a due mani all'esercito (che invece sembrano essere gli unici in grado di mettere in fila due neuroni, a differenza dei poliziotti in cui se ne becchi uno normale è un mezzo miracolo) e di dare effettivamente al suo protagonista una morale veramente grigia proprio in quanto ex marine (un uomo che si è già ritrovato a fare cose brutte in un momento in cui la legge veniva a mancare e qualsiasi nefandezza poteva essere perdonata potrebbe rifarlo) invece è tutto un classico, semplicistico e paraculo "mamma me l'ha fatto fare il gruppo" e "però non ho mica sparato io", e in generale Barbie diventa la voce dell'autorità americana (ovvero di legge, ordine e disciplina) all'interno della cupola ed è figo sveglio e buono mentre Big Jim è vecchio, grasso, stronzo, incompetente e non paga le tasse.
Quante sfaccettature complesse tutte insieme, diamine...

IN CONCLUSIONE. . .

The Dome è un romanzo dalle premesse intriganti, con la presenza di scene corali davvero ben fatte e un piglio cinematografico che ho apprezzato particolarmente, un libro che ogni tanto presenta addirittura picchi di poesia e delicatezza rare, specie quando King smette i panni del re dell'incubo, abbandona le profezie e la merda e si perde ad esempio nella descrizione di una pioggia di stelle cadenti che vanno tingendosi di rosa a causa dell'inquinamento intrappolato all'interno della cupola.
Le problematiche sono le stesse che io personalmente trovo sempre all'interno dei romanzi di questo autore: cliché a fiumi, personaggi poco approfonditi a dispetto delle tremila pippe mentali che si fanno (di solito su merda e tette), carenza di descrizioni nonostante la mole importante della storia, personaggi e dialoghi a tratti forzati e orribili, nonché il solito pararsi il culo dietro le motivazioni imperscrutabili di esseri vaghi e lontani per non spiegare un piffero sul finale, un finale anche in questo caso delirante in cui la giornalista Julia Shumway scopa Barbara e ha la rivelazione per salvare la situa: pregare chi ha messo la cupola. 
Anche la mia pazienza è morta
alla fine del romanzo
La cupola si alza come Poochie il cane che torna sul suo pianeta e tutto è inno alla vita, gioia e aria fresca per i pochi sopravvissuti mentre ci sono ancora un paio di cadaveri di amici ancora caldi (tra cui il mio personaggio preferito del romanzo, Thurston Marshall) e uno stronzo che sputa sangue e rantola a due passi. Nel frattempo Big Jim s'è praticamente ammazzato da solo, rendendo inutile tutta la pugnetta sulla resistenza e la lotta al tiranno che ha impegnato tre quarti di libro.
Tanto, ci dice King, alla fine i cattivi si distruggono da soli.
Ma va' a cagare...

Giudizio finale:

domenica 9 aprile 2023

[Recensione] FEBBRE, di Ling Ma

Titolo originale:
 Severance
Autore: Ling Ma
Traduzione: A. Mioni
Edizione: Codice edizioni
Pagine: 348
Anno: 2019

Premesse:
Da ben prima della pandemia vengo colta a intervalli regolari dalla (termine mai come in questo caso appropriato) febbre del post-apocalittico, con una particolare predilezione verso la figura dello Zombie. Nello specifico lo zombie di Romero che si fa metafora della massa acefala e famelica figlia del capitalismo (visione resa ancor più esplicita dai "morti che non muoiono" di Jarmush che persino da infetti non rinunciano ai loro feticci risultando più ridicoli che minacciosi, immagine che mi è subito saltata alla mente nel corso della lettura di questo romanzo che il film lo precede di appena un anno. Coincidenza divertente), non quei cazzo di centometristi portati su schermo da Snyder.
Ho sviluppato insomma un gusto per il post apocalittico metaforico, quello che usa il tema della fine della civiltà come espediente per criticare il quotidiano alienante dell'epoca moderna. Gusto che la cino-americana Ling Ma bontà sua asseconda con il suo romanzo d'esordio, con l'aggiunta di un punto di vista un po' particolare, quello di un'immigrata cinese in America, che è (ammicco ammicco) la morte sua. In questo, magari chi a differenza mia preferisce il post apocalittico più ignorantello dove suore e avvocati devono resistere alle orde bestiali o dove l'apocalisse zombie diventa una scusa per fare le corna al marito e poi si piange potrebbe non apprezzare.
Nel caso, rispetto democraticamente la nostra
divergenza di opinioni

DUE RIGHE DI TRAMA

Candace Chen è figlia di immigrati cinesi espatriati grazie a un permesso di studio nel periodo di "Riforma e apertura". L'autrice non la butta in politica: la cornice storica è vaga, con giusto un paio di riferimenti agli scontri di piazza Tiananmen e al successivo periodo di benessere del paese, fatti vissuti solo alla lontana da una famiglia che ha troncato i legami con il suo paese d'origine, se si escludono viaggi sporadici e cartoline di natale.
Specie Candace, che è arrivata in America a 6 anni e della Cina non ha che vaghi ricordi. Candace cresce ed esaudisce le aspettative genitoriali: laureata in una buona università si ritrova in giovane età a lavorare a Manhattan presso una grossa casa editrice, la Spectra.
Responsabile del settore Bibbie, è molto apprezzata dai piani alti per la serietà, la dedizione al lavoro, la bravura nel gestire le emergenze e la capacità di interagire coi fornitori (ovviamente tutti situati in area asiatica per abbattere i costi di produzione). E' solo questione di tempo, le dicono, e sarà trasferita nel settore Arte, il più ambito della Spectra.
Un sogno per chi come lei ha studiato fotografia e moda.

Ma il sogno di questa self made china girl viene infranto dall'arrivo della Febbre di Shen, un ceppo aggressivo di infezione fungina originatosi nella regione di Shenzen, in Cina (zona che Candace, come vedremo, ha visitato spesso per lavoro).
Come si manifesta?
"Nelle sue fasi iniziali la febbre di Shen è difficile da individuare. I primi sintomi includono mal di testa, respiro faticoso e spossatezza. Poichè questi sintomi sono spesso scambiati per un raffreddore comune, di rado i pazienti sono consapevoli di aver contratto la febbre di Shen. A volte possono sembrare produttivi e sono ancora in grado di eseguire le normali attività quotidiane. Tuttavia, ben presto i sintomi iniziali peggiorano.
I sintomi avanzati comprendono segni di malnutrizione, scarsa igiene personale, lividi e problemi di coordinazione. I movimenti del paziente possono sembrare goffi e faticosi. Alla fine, la febbre di Shen conduce a una perdita di coscienza fatale. Dal momento in cui la si contrae, i sintomi possono svilupparsi in un arco di tempo compreso tra una e quattro settimane, a seconda dello stato del sistema immunitario del paziente."

Considerato inizialmente come un mero focolaio, qualcosa di facilmente contenibile grazie a politiche di isolamento dei contagiati (complici i bollettini governativi cinesi che minimizzano la situazione del paese - e il senso di deja vu' pizzica), la febbre di Shen si espande a livello globale determinando il crollo della civiltà.
Ma Candace, schiava della propria routine casa-lavoro (esattamente come gli "zombie" malati di febbre sono schiavi della stessa identica routine che li porta a compiere gesti per loro significativi in loop ossessivo, finché il corpo non cede) ma soprattutto abbagliata dalla prospettiva che possa esserci ancora un post-emergenza in cui i suoi sforzi per tenere in piedi la Spectra verranno ricompensati dai piani alti dell'azienda, resta a New York assistendo alla morte lenta e inesorabile di una città che, da straniera senza famiglia e senza radici, non avverte come casa.
Solo quando ormai è troppo tardi, ma soprattutto quando il suo contratto con la Spectra giunge al termine, Candace si decide ad abbandonare la città, decidendo di unirsi per necessità a un gruppo di sopravvissuti miracolati quanto lei guidati da un certo Bob: ragazzi diretti verso la Struttura, un luogo in cui potranno cominciare a ricostruire le basi della civiltà.
Parrebbe l'inizio di una stagione di The Walking Dead, e invece no.

IMPRESSIONI SPARSE

Febbre è un romanzo che porta avanti il tropo del dead man walking come metafora di un'umanità alienata e schiava del consumo oltre che del lavoro: non a caso Dawn of the dead di Romero era ambientato in un centro commerciale. Sempre non a caso la Struttura verso cui Bob sta guidando il suo gruppo di sopravvissuti altro non è che un centro commerciale. Un centro commerciale di cui tra l'altro Bob possiede una quota societaria.
A guidare Bob verso la meta finale del viaggio non sono quindi motivazioni logistiche (il centro commerciale non è particolarmente sicuro e non è ricco di risorse come si pensava - anzi, i mobili per le loro abitazioni improvvisate in negozi di tendenza devono andare a prenderli nel corso di un raid nel vicino Ikea - le provviste sono poche e razionate, non sembrano esserci altri insediamenti umani nelle vicinanze a cui unirsi) o altre motivazioni razionali. E' più che altro il bisogno di tenere sott'occhio il proprio investimento, oltre che la sterile nostalgia verso tempi passati in cui Bob trascorreva i pomeriggi a bighellonare proprio in quel centro commerciale.
Anche la cosiddetta ricostruzione della civiltà attuata dal gruppo di sopravvissuti si riduce a una serie di regole arbitrarie dettate da Bob, che custodisce le chiavi delle automobili e delle risorse, decide i compiti per la giornata, premia e punisce, toglie o restituisce il privilegio di far parte del gruppo, e costringe tutti gli altri a seguire una serie di sterili ritualità (impossibile in quest'ultimo caso non cogliere il parallelismo con la ritualità ossessiva dei morti). Il resto del gruppo, sopravvissuti come Candace a una società che chiedeva di essere loro performanti e devoti all'azienda, pur non stimando Bob si accapigliano per i suoi favori e temono la sua ira, obbedendogli ciecamente.
Si è persa, sembrerebbe, la voglia di lottare.
Di nuovo, emblematico il parallelismo coi malati. La massa dei non morti non è aggressiva né ostile, al contrario sono i vivi ad aggredirli, mettendo pietosamente fine alle loro sofferenze (a decidere che il gesto di ucciderli è pietoso dal momento che il malato non può dare il consenso ovviamente è il solo Bob, che in maniera piuttosto ipocrita usa l'omicidio come una sorta di rito di iniziazione): si limita a ripetere i rituali importanti, come radunarsi attorno alla tavola per una cena in famiglia, mandare e-mail di lavoro su progetti chiusi mesi o anni prima, piegare magliette in una boutique. Se lo zombie pur essendo il corpo clinicamente morto si aggrappa alla vita e segue i bisogni biologici primari di nutrirsi e moltiplicarsi (il morso "dà vita" a un nuovo non morto), il malato di febbre, proprio come i vivi che seguono Bob e la stessa Candace, annulla se stesso in una ritualità sterile fino alla morte.

Manca un senso.
Mancano direzione e scopo, sia a livello individuale che sociale: non ha senso il solitario peregrinare senza meta di Candace che inizia tra le strade di New York e termina tra quelle di Chicago; non ha senso la sterile ritualità cui Bob costringe il gruppo; non ha senso che un'umanità al collasso si preoccupi di tenere aperte le aziende e organizzare settimane della moda, o che vengano garantiti i servizi di trasporto pubblico, taxi e igienizzazione in una città deserta. Solo distrattamente lo sguardo di Candace si posa su queste persone, che sono (e quando te sbagli) immigrati, ex soldati, e altri disperati senza radici che restano a tenere il forte mentre le alte dirigenze si sono già messe al sicuro ai primi segnali di pericolo.
Eppure, quanto sa di già vista tutta questa insensatezza.

Se sappiamo che questo ceppo fungino mortale nasce in aree in cui gli operai col beneplacito delle aziende occidentali 
(e nel caso della Spectra parliamo di una casa editrice che produce Bibbie - l'ironia è palpabile) sono sfruttati all'osso e vivono in condizioni igieniche e di lavoro malsane, cosa che porta al proliferare di agenti patogeni potenzialmente mortali (un pericolo tutt'altro che lontano - in questo, ovviamente il romanzo si può leggere anche in chiave di critica al neoliberismo selvaggio), non sappiamo in che modo ci si possa difendere dal contagio.
A nulla valgono quarantene, controlli agli aereoporti, disinfestazioni, evitare il contatto umano, indossare le mascherine FPP3. Non ci sono regole da seguire come nei film di zombie, non c'è salvezza, non c'è modo di scamparla: si può fare tutto per bene, stare attenti, prendere precauzioni e ammalarsi, o si può essere totalmente incuranti, bazzicare ambienti umidi e malsani e sopravvivere. Con buona pace delle teorie di predestinazione divina portate avanti da quel pirla di Bob.

Ad un altro livello Febbre è anche un romanzo che parla di casa e identità.
Candace ne è priva: immigrata in terra straniera, ha perso il legame con la sua terra d'origine, l'uso della sua lingua madre, i suoi genitori. La sua stessa madre ha dovuto rinunciare a tutto per seguire il marito oltreoceano e garantire alla sua famiglia migliori opportunità, e questo l'ha portata a riversare sulla figlia tutte le proprie ambizioni frustrate.
Allo stesso tempo, smarrita in uno stile di vita vuoto e alienante in una città che tende a dimenticarsi di te (non a caso il titolo originale è Severance, ovvero separazione), Candace non è stata in grado di costruire nulla di nuovo che potesse compensare la sua perdita identitaria. Candance è la realizzazione dell'american dream, ma scavando appena sotto la superficie quello che ne deriva è un guscio vuoto.
Candace è letteralmente il suo lavoro.
Non ha amici ma colleghi di lavoro. Il suo (ex) ragazzo Jonathan è un uomo che vive dello stretto indispensabile (a costo di continue rinunce e sacrifici però, pensa Candace che quelle privazioni le ha vissute per via della propria condizione di immigrata) e che rifugge il sistema capitalistico della Grande Mela a cui lei non confiderà nemmeno di essere incinta. Dei suoi hobbies conosciamo solo un'ossessione per la skin care e per i prodotti di lusso (il romanzo, in linea con questa critica ad un capitalismo schizofrenico, è zeppo di riferimenti a brand di lusso), ma sono più che altro ossessioni ereditate da sua madre.
Proprio come i malati di febbre di Shen (e proprio come i suoi compagni di viaggio), Candace è definita da una routine alienante scandita dal tragitto casa-ufficio.
Mi alzai. Andai a lavorare al mattino.
E' un incipit che cadenza l'inizio di molti capitoli del romanzo.
La routine di Candace non si interrompe neppure in piena pandemia, mentre la città le muore intorno. E quando raggiungere il lavoro diventerà troppo disagevole causa mancanza di servizi e manutenzione, la scelta di Candace sarà andare a vivere negli uffici deserti della Spectra per non venir meno agli impegni aziendali dal momento che, come dirà lei stessa, non ha nessun posto dove andare né una famiglia da cui attingere consolazione e protezione.

IN CONCLUSIONE. . .

In Febbre si intrecciano con eleganza ed estremo equilibrio capitoli pre e post collasso, la storia personale di Candace e quella, forse ancor più paradossale e tragicomica, della fine del mondo, filoni narrativi accomunati dal punto di vista estraneo (e non solo perché esotico, che rappresenta il vero punto di forza del romanzo dal momento che la metafora dell'apocalisse come critica al capitalismo come abbiamo visto non ha nulla di nuovo) di una protagonista peculiare, che assiste al crollo della civiltà (arrivando a scattare foto di quanto la colpisce della pandemia per postarle sul suo blog come sorta di memento funebre a uso e consumo di quelle comunità in cui la febbre di Shen ha colpito meno) come se questa non la riguardasse.
La narrazione scorre liscia, senza annoiare.
Occorre però un po' di presenza mentale per destreggiarsi tra le linee narrative.
Il romanzo colpisce, e colpisce duro, facendosi sia finestra critica sul presente che sorta di diario intimista (impossibile non cogliere dei parallelismi tra Candace e Ling Ma). Manca, e la cosa per quel che mi riguarda è un punto a favore del romanzo dal momento che odio i finali a cazzo di cane alla "e trovarono una cura/e ricostruirono la civiltà grazie ai nostri coraggiosi ragazzi in divisa", un finale consolatorio, almeno per quel che riguarda il destino dell'umanità. La società perfetta di Bob collassa, le strade di Chicago sono abbandonate quanto quelle di New York, dando a intendere che gli Stati Uniti siano ormai terra morta e che Candace possa essere l'unica sopravvissuta alla pandemia. Nelle ultime pagine del romanzo però la troveremo cresciuta: più umana, più consapevole di sé e finalmente desiderosa di creare un legame con qualcun altro. Nello specifico con Luna, la bimba che porta in grembo e di cui solo negli ultimi momenti trascorsi sotto la protezione di Bob ha riconosciuto come individuo, dandole un nome.

Giudizio finale: