venerdì 18 marzo 2022

[Recensione] L'AMBASCIATA DI CAMBOGIA di Zadie Smith

Titolo originale:
 The Embassy of Cambodia
Autore: Zadie Smith
Traduzione: S. Pareschi
Edizione: Mondadori, copertina flessibile
Pagine: 70
Anno: 2016
Euro: 10,00 | Ebook: 4,99

Premesse:
Visto che conto come il due di bastoni quando la briscola è coppe all'interno del mondo delle recensioni e che nessuna casa editrice mi invia nulla a titolo gratuito posso dire che far pagare 10 cazzo di euro per 70 pagine scarse in copertina flessibile cavalcando l'onda del successo di Zadie Smith sarebbe comico se non ci fosse da piangere?
70 pagine. 
Una volta quando ci si ritrovava di fronte a libercoli così piccoli o si vendeva il volume a un paio di euro o si faceva una raccolta di novelle per arrivare a una massa dignitosa e giustificare il prezzo alto, ma pare che Mondadori non ci provi nemmeno più a dare l'idea di non ritenere i pochi lettori rimasti in Italia vacche da mungere. Oppure i fan di Zadie Smith, con buona pace dei temi che porta avanti nelle sue opere, sono borghesi benestanti a cui 10 euro sembrano un prezzo equo.
Spoiler: non lo è.

DUE RIGHE DI TRAMA

"Chi si aspetterebbe l'ambasciata di Cambogia? Nessuno. Nessuno poteva aspettarsela, nessuno se l'aspettava. E' una sorpresa per tutti noi. L'ambasciata di Cambogia?
Di fianco all'ambasciata c'è un centro benessere. Dall'altra parte una fila di residenze private, quasi tutte appartenenti a ricchi arabi (o almeno così sosteniamo noi, la gente di Willesden). In genere hanno colonne corinzie ai lati dell'ingresso e - secondo l'opinione diffusa - una piscina sul retro. L'ambasciata al contrario non è molto imponente. E' solo una villa con quattro o cinque camere da letto alla periferia nord di Londra, costruita negli anni Trenta, circondata da un muro di mattoni rossi alto circa due metri e mezzo. E avanti e indietro, rasentando orizzontalmente quel muro, sfreccia un volano. Giocano a Badminton, nell'Ambasciata di Cambogia."
A parlare è Fatou, una giovane immigrata africana impiegata come collaboratrice domestica e bambinaia presso i Derawal, anche se impiegata sembra un termine piuttosto improprio dal momento che, al pari di molte altre collaboratrici domestiche tenute in ostaggio nell'evoluto Occidente, non percepisce alcuno stipendio e non ha più notizie del suo passaporto.
Ma Fatou la prende con filosofia, sentendosi anche piuttosto fortunata rispetto ad altre persone che vengono schiavizzate o costrette alla prostituzione:
"Nessuno picchiava Fatou, anche se la signora Derawal l'aveva schiaffeggiata un paio di volte e i due figli più grandi le parlavano senza alcun rispetto e non la ringraziavano mai. (A volte li sentiva usare il suo nome come insulto. "Sei nero come Fatou". Oppure: "Sei stupido come Fatou") [...] In ultima analisi tuttavia Fatou non era confinata in casa. Aveva l'abbonamento ai mezzi pubblici che le avevano dato i Derawal, ed era incaricata della spesa e di altre commissioni, per le quali i Derawal le passavano dei soldi che doveva restituire con il resto e le ricevute. Se non usciva la sera era solo perché non aveva i soldi per uscire, e a ogni modo conosceva pochissima gente a Londra."
Fatou non è schiava ma solo una delle tante storie di giovani fannulloni di oggi che non hanno voglia di fare la gavetta, insomma.

La vita della nostra protagonista scorre placida e obbediente, anche perché di alternative ne ha poche: escludendo qualche colazione condita di discorsi intellettuali su religione, storia e politica con l'amico Andrew (immigrato africano come lei che frequenta part time un corso di economia al North West London College) l'unico atto di ribellione lo riserva al lunedì, quando prende il bus e va a nuotare per qualche ora nella piscina del centro benessere di fianco all'ambasciata di Cambogia facendo uso dei buoni di ingresso omaggio che i Derawal tengono ammonticchiati in un cassetto.

IMPRESSIONI SPARSE

L'ambasciata di Cambogia è una finestra breve ed impietosa di globalizzazione capitalista vista attraverso gli occhi di quella bassa manovalanza diversamente bianca non specializzata che trova voce attraverso la penna di Zadie Smith, nata da padre inglese e madre giamaicana e cresciuta nel quartiere multietnico e proletario di Brent, a Londra.
Inizialmente pubblicata sul New Yorker, la novella è scandita in brevi capitoli enumerati come il punteggio di un set di badminton nel quale Fatou dà voce ai suoi pensieri in maniera libera, nel silenzio della piscina o durante i suoi scambi intellettuali con Andrew, che nonostante passi per l'intelligentone di turno sempre pronto a invitare all'obiettività e alla logica la sua compagna di colazione a chi legge risulta, anche se di base un ragazzo di buon cuore, abbastanza limitato: la sua superiorità culturale su Fatou è dovuta solo al fatto di aver accesso tutto il giorno all'internet gratuito in quanto studente universitario (e comunque dà l'idea di essere più un complottaro che uno che si informa nei posti giusti), cosa che non gli impedisce di deridere Fatou per una sua lacuna, da bravo coglione. D'altronde è la presenza più solida e stabile nella vita di Fatou, che ha poco da fare la schizzinosa anche se i suoi sentimenti nei confronti di Andrew sono complicati.
"Fatou ha provato, non per la prima volta, a immaginarselo come marito, ma è riuscita solo a vedere se stessa come moglie, e lui come un figlio adolescente, intelligente e servizievole, certo, ma pur sempre un figlio, anche se in realtà aveva 3 anni più di lei. Senz'altro sbagliava a trovare deprimenti la sua ciccia infantile e i suoi baffetti stentati. Era un brav'uomo! Fatou sapeva che le voleva bene, era pulito e aveva consacrato la sua vita a Cristo. Tuttavia una parte di lei, una parte empia, si ribellava  a lui."
Come a dire che persino gli struggimenti d'amore alla fine sono un lusso borghese e occidentale. 

L'ambasciata di Cambogia è una storia costruita su più livelli.
Con Andrew si parla di tutto e le discussioni vertono sui massimi sistemi: i due discutono della Kampuchea Democratica, della sofferenza dei popoli, del doppiopesismo occidentale che si traduce in una fissazione per la Shoa mentre il genocidio del Ruanda viene sistematicamente ignorato. Si parla di religione, economia, filosofia, storia.

A un livello più superficiale si segue la vita quotidiana di un'immigrata di colore che dalla Costa d'Avorio è riuscita ad arrivare tra mille difficoltà e sacrifici in Italia per poi trasferirsi in Inghilterra dove si sta ritagliando faticosamente il suo piccolo spazio nel mondo: veniamo a sapere i piccoli piaceri della sua quotidianità, i suoi passatempi, i suoi amici, la sua fede incerta (perché è difficile crearsi una propria nicchia spirituale forte e coerente quando si è subita tanta ingiustizia), gli abusi del suo passato (che la Smith non racconta mai in maniera lacrima strappa storie per amor di patetismo, com'è giusto che sia quando non sei uno squallido onanista della sofferenza altrui), il modo in cui trascorre le giornate all'interno di una casa di pakistani benestanti che potrebbero essere tranquillamente usciti dalle famiglie bianche e viziate di Gossip Girl tanto sono stronzi. 

Ma sotto la superficie il personaggio di Fatou ci pone davanti alle problematiche legate all'esistenza i figli dimenticati della globalizzazione e del multiculturalismo, nella fattispecie il destino degli immigrati poveri di colore. Fatou è una persona intelligente, sensibile e determinata, e nonostante tutte queste qualità non le è permesso non solo prosperare, ma esistere dignitosamente.
Il suo status, la sua appartenenza etnica e il suo sesso sono pesi insormontabili persino in una società multietnica e aperta come quella londinese. A tenerla ancorata a terra, in maniera ironica ma che non sorprende più di tanto, sono altri immigrati di colore arrivati prima di lei che ce l'hanno fatta (che sia per culo o a seguito di un duro lavoro non ci è dato modo di saperlo visto che di loro Fatou, e di conseguenza noi, non sa nulla) ma ancorati come sono con le unghie e i denti a quella piccola nicchia di privilegio che sono riusciti a strappare ai bianchi aprendo un paio di negozi di alimentari si accaniscono su chi sta un po' più sotto, nel pieno spirito dell'individualismo capitalista.
Come lei anche Andrew ha trovato un lavoro sottopagato (e deve ringraziare che lo paghino) e vive in un bugigattolo squallido. Insomma siamo molto lontani dalla retorica liberista e stronza degli sforzi che alla fine ripagano.
E' una vita che Fatou si impegna, che fa sacrifici, che si umilia, che supera dolori ed esperienze che distruggerebbero nel corpo e nello spirito persone in condizioni molto più privilegiate di lei e ha rimediato solo sfruttamento e mancanza di rispetto (anche se non è schiava, conclude alla fine di uno dei suoi primi monologhi interiori), ma anche quel poco che è riuscita ad ottenere va a sgretolarsi alla fine di questa metaforica partita di badminton che non può che concludersi con una disfatta totale.
Per capirsi su cos'è il badminton
se non si è schifosamente inglesi
e borghesi...
0-21, l'ultimo capitolo del romanzo, vede Fatou cacciata di casa dai Derawal senza alcun motivo apparente: Fatou ha salvato la figlia minore dei Derawal dal soffocamento eppure niente sembra cambiato nel modo in cui si comportano nei suoi confronti (anzi, semmai le cose tra loro vanno a complicarsi e farsi strane), e nessuno ha mai scoperto degli ingressi omaggio al centro benessere trafugati dal cassetto.
Fatou viene buttata via come uno straccio vecchio e resta sola e senza mezzi alla fermata del bus coi suoi pochi averi raccolti in un paio di buste per la spesa, e ovviamente di ottenere giustizia in un sistema che è tutto fuorché equo e giusto con chi ha più bisogno di tutele non se ne parla. Le sue uniche consolazioni sono di avere ancora l'abbonamento ai mezzi pubblici, di aver finalmente riottenuto il suo passaporto (tenuto in ostaggio dalla signora Derawal per tutto il tempo) ma soprattutto di avere accanto la presenza confortante dell'onnipresente Andrew, che si mostra deciso ad aiutarla a superare questo momento di difficoltà e ad ospitarla a casa sua per quanto piccola e poco accogliente, anche se la novella si interrompe prima che si sappia se le cose andranno meglio per entrambi o se per Fatou ci sarà uno spiraglio di speranza.
Non c'è posto qui per le morali confortanti.

Zadie Smith ci mette di fronte a un'umanità in cui non solo aleggiano classismo e razzismo, ma in cui soprattutto è l'individualismo a farla da padrone e manca il desiderio e la capacità di comunicare con l'altro (metafora portata avanti dall'alto muro dell'ambasciata di Cambogia, oltre il quale si può intravvedere solo la parabola del volano ma di sapere cosa effettivamente accada lì non se ne parla), persino tra oppressi: e se risulta abbastanza comprensibile che i Derawal, ormai entrati a far parte degli ingranaggi borghesi e capitalisti, trattino da inferiore una persona meno privilegiata di loro, sorprende (ma non troppo) che anche Fatou risulti a conti fatti freddina e indifferente, per non dire un po' infastidita, nei confronti dei patimenti degli altri popoli, se paragonati a quelli subiti dagli africani.
Si vive alla giornata, al massimo contando su un amico.
Ne consegue un Io narrante freddo e distaccato: Fatou ha delle radici africane che traspaiono poco e raramente, mantiene per tutto il tempo una forte distanza sia dagli altri personaggi della storia (compreso Andrew, che non sa cosa lei pensi di lui e di come non lo riesca a vedere come un partner per quanto si sforzi, anche se probabilmente la vita finirà per farli finire insieme), e grazie a questo si percepisce tutto il suo essere altro, portandoci a riflettere su cose che diamo per scontate, come il fatto che persino il sentirsi parte di qualcosa (una famiglia o un retaggio culturale) sia a conti fatti un privilegio che aiuta a sentirsi parte di qualcosa in un mondo in cui nulla è solido. E chi, come Fatou, non ha questa fortuna, si aggrappa a ciò che può.
Come una fede posticcia, un amico o una nuotata di nascosto in piscina.

IN CONCLUSIONE. . .

L'ambasciata di Cambogia è il mio secondo tentativo con Zadie Smith, dopo il mio fallimentare approccio a quello che è considerato il suo capolavoro, Denti Bianchi. Al di là del costo criminale, del fatto che notoriamente odi i racconti brevi e i finali aperti, ho trovato la lettura piacevole, breve e incisiva, e il punto di vista diverso quel tanto che basta da regalarmi qualche riflessione interessante e il desiderio di dare una seconda possibilità a questa autrice per vedere se il mio apprezzamento di questo titolo sia stato un caso o meno. 
Ma sto ancora a rosicare per i 10 euro, fate cacare.
Alle vostre mamme, la crisi dell'editoria e delle materie prime.


Giudizio finale:

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