Autore: Victoria Schwab
Traduzione: R. Serrai
Ed.
Italiana:
Giunti, copertina rigida, 400 pagine,
Anno (Italia): 2017
Euro: 18,00
A volte, giunta all’ennesima delusione di
fronte a un titolo straosannato dai fan del genere che si rivela l’ennesima
cacata piena di clichè in cui la storia “fantastica” è solo una scusa per far
limonare una cretina e uno scimmion, tra l’altro scritta con parti anatomiche
che di solito non dovrebbero reggere una penna, penso di essere troppo vecchia
per apprezzare un genere creato su misura per i ragazzi. Poi di solito comincia
Elena di Avalor in tv, destinato direttamente alle bambine, e a quel punto
torno in sintonia col mio fanciullino pascoliano quindi per un po’ non ci penso.
Ma a volte a mettere pace tra me e i prodotti
per ragazzi e a farmi felicia capita uno
YA con un worldbuilding intrigante che mi emoziona e mi fa interessare
sinceramente alle sorti dei protagonisti. Se poi questo è scritto da una donna,
è la ciliegina sulla torta.
E’ il caso di Questo canto selvaggio, prima opera di Victoria Schwab che finisce tra le mie manine e primo volume della
saga de I mostri di Verity.
QUALCHE
RIGA DI TRAMA
A Verity
City la violenza regna sovrana: omicidi, attentati, rivalità tra bande, quotidiana
criminalità sono arrivati a un livello tale che a confronto Gotham è Helsinki.
Ma la violenza, si sa, genera mostri, in questo caso letteralmente: dagli atti
violenti infatti hanno cominciato a prendere vita tre stirpi di creature
mostruose. Ci sono i Corsai, poco
più che bestie: istintivi, selvaggi, dai pensieri elementari, che
attendono al varco la vittima incosciente che si avvicini troppo al buio.
I Malchai,
altrettanto avidi di sangue ma più sofisticati nel modo di comportarsi e di
cacciare: umani li si potrebbe definire nel bene e nel male se non fosse per la
carnagione così pallida da sembrare morta e gli occhi scarlatti, sono la stirpe
che anche visivamente più si avvicina ai nostri classici vampiri.
E infine i più rari e potenti Sunai, quasi del tutto indistinguibili
da un essere umano in condizioni normali, i quali nascono dai crimini più
efferati che prevedono la morte di un gran numero di persone (attentati,
suicidi di massa, stragi scolastiche). Loro non si nutrono di carne e ossa come
i Corsai né di sangue come i Malchai: scovano chi si è reso colpevole di un
crimine violento e irretiscono con una musica ipnotica solo le anime
colpevoli di un delitto che ha comportato la morte di un altro essere umano.
Sono costretti a nutrirsi, pena sofferenze inimmaginabili.
Ma come si gestisce il male a Verity?
Come si tengono a bada queste creature?
Callum
Harker,
che governa sulla parte nord della città, ritiene che la risposta sia un
connubio di pugno di ferro e capitalismo: stringe delle alleanze con i
Malchai, tiene a bada con la violenza i Corsai e istituisce un sistema di
protezione per cui la gente paga un fiume di pecunia e in cambio ottengono una
medaglietta pacchiana con il suo brand. Non importa che tu sia un peccatore o
una brava persona, chi è ricco è protetto e chi non paga cazzi suoi.
A sud di Very invece Henry Flynn è un idealista che vorrebbe proteggere tutti gli esseri
umani indistintamente (chiedendo alla gente di rischiare la vita gratis e stupendosi
poi di avere pochi volontari) ed eliminare il problema che infesta Verity alla
radice. Ecco perché si batte con coraggio insieme a un plotone di volontari per
uccidere Corsai e Malchai mentre i suoi tre figli adottivi, tutti Sunai, si
occupano di esorcizzare gli uomini malvagi.
Le due zone, separate fisicamente da un muro,
si reggono su una flebile tregua, e in questo scenario si muovono e
incroceranno i loro cammini i nostri due specialissimi
protagonisti, Katherine Harker, la
figlia ribellina di Callum, e August
Flynn, il più giovane dei Sunai accolti da Henry. Non ti puoi sbagliare, i
protagonisti sono sempre specialissimi. Ma in questo caso va bene così, non si
fosse specialissimi a Verity si morirebbe in due giorni.
*
QUALCHE
RIFLESSIONE SPARSA
Questo romanzo non è la cosa più originale e
golosa mai creata da mente umana, e nemmeno me lo aspetto da uno YA. Il libro corre
per tutto il tempo rasente al binario dritto e regolare dei clichè di genere,
attraversa di striscio gli stessi placidi e sicuri paesaggi già visti tipo
mille volte e io ho passato l’intera lettura TERRORIZZATA che a un certo punto tutto svaccasse e si cadesse in
qualcosa di irritante e prevedibile come il “ti odio ma ti amo”,
“uuups, la mia camicia si è strappata/bagnata, meglio togliersela per far
vedere gli addominali alle lettrici”, “sono una donna pawaaaah profonda come
una pozzanghera che sogna solo l’amore”, ma fortunatamente la Schwab
è trollina e questo,almeno finora, non accade.
Grazie Victoria.
Questo canto selvaggio (This savage song in
originale) non è un titolo dato a caso perché suona bene, e forse da qui la
scelta lodevole di Giunti di non metterci mano con estrose leziosità (perché dire
imbarazzanti cazzate suona brutto, vero Rizzoli?) e tradurlo alla lettera.
Tutto in questo libro richiama alla musica, e non solo perché, motivo più
superficiale, August suona il violino e in generale i Sunai operano
attraverso la musica. La stessa Kate ha come tic nei momenti di maggior
nervosismo il battere il tempo con le dita, e quasi diventa per August
un metronomo con cui tenere il ritmo. Non a caso nel corso dell’opera sarà lei
a rappresentare più volte per il Sunai un punto di riferimento, senza diventare
una pawah che fa tutto lei, risolve tutto
lei.
Ha buone idee perché conosce meglio la città
e il mondo degli umani rispetto a August che non è mai uscito di casa, ma di
fronte a cose più grandi di lei, giustamente, è impotente.
Per buona parte del libro poi viene
riportata, canticchiata da diversi personaggi nel corso della storia, una filastrocca
che si presume venga insegnata ai bambini fin da piccoli a Verity City, per
metterli in guardia dai mostri che si annidano nel buio. E che serva a
esorcizzare la paura o a far passare il tempo mentre si aspetta che un Sunai
faccia il suo “dovere”, la filastrocca scandisce i ritmi della metropoli.
«Mostri, mostri, belli e brutti
Verranno a mangiarvi, a uccidervi tutti.
Corsai, Corsai, artigli e zanne,
La vostra vita misurano a spanne.
Malchai, Malchai, vi mostrano i denti,
E gli occhi rossi, volenti o nolenti.
Sunai, Sunai, occhi di pece,
Sentite una musica, poi l’anima tace.
Mostri, mostri, belli e brutti,
Verranno a mangiarvi, a uccidervi tutti!»
Lo stesso punto di vista dei due
protagonisti si alterna di capitolo in capitolo come un duetto armonico che parte
con un capitolo a testa (anche nei momenti in cui sono insieme nello stesso
posto) e poi va intrecciandosi sempre più man mano che i due personaggi si
avvicinano, diventando un tutt’uno indissolubile nel momento clou per poi
separarsi ancora, come una melodia che va sfumando nel finale.
Chi si
aspetta un Romeo e Giulietta paranormal-postapocalittico però casca male.
I due protagonisti si incontrano in ambiente
scolastico, ma non vi daranno la soddisfazione di incontrarsi casualmente dopo
aver sbattuto l’uno contro l’altra mentre lei sta correndo perché è in ritardo
e lui è distratto da cupi pensieri di morte perché è bello e maledetto; nessuno
noterà nemmeno per un secondo i pettorali marmorei di lui mentre è disteso
nella vasca da bagno, o gli occhi splendenti e la pelle perfetta di lei
durante un pigro pomeriggio passato insieme. August di Kate noterà al massimo
la cicatrice che le percorre l’orecchio (da cui è sorda) e zigomo, frutto di un
incidente che ha avuto da bambina e in cui ha perso la madre, quando per caso
le si scosteranno i capelli dal viso. Lei noterà gli occhi di lui solo
quando questi da grigi si faranno neri come
la pece, nel momento in cui la fame di Sunai si farà insostenibile, e non
sarà certo un momento soft porn. Kate e August sono due anime sole e schive che
trovano una luce l’uno nell’altra, qualcuno di cui fidarsi, un modo di
sopravvivere e sentirsi, a modo loro, umani.
Persino il modo in cui inevitabilmente si
avvicinano non ha nulla di forzato.
A una certa, nel punto di maggior sfiducia
reciproca, saranno letteralmente costretti a collaborare perché qualcuno vuole
incastrare entrambi per mettere fine alla tregua, ma già prima di allora hanno
parlato molto, sentendo di essere anime in sintonia nonostante appartengano a
mondi così diversi.
Kate non è un
personaggio facile da amare. Perché non è una damina fragile, ma nemmeno
una pawaaah bidimensionale o una sassy senza sostanza che in fondo cerca solo l’amore
per farsi rimettere in riga. Kate è proprio una criminale in erba, una
queen bitch del liceo con licenza di uccidere.
Inizialmente vuole entrare nelle grazie di un
papi malvagio (che è proprio quello di cui necessita una città in cui la
violenza genera mostri, un criminale violento…), diventare fredda, spietata,
letale e determinata: conquistarsi un posto di dominio nella scuola che
frequenta o diventare una letale macchina da guerra per mostri è per lei una
missione da perseguire con ogni mezzo, specie se violenti perché è il padre a
gradire questi metodi. Ma il suo scopo alla fine di questo libro non sarà
innamorarsi e trovare la sua altra metà paranormal della mela per combattere
insieme contro le forze del male, ma proprio il contrario: smetterla di cercare amore dove chiaramente non ce n’è, ritrovare se
stessa, diventare una persona che non chiude più gli occhi di fronte alle
verità scomode (ed è ironico che una città di nome Verity tutto persegua
fuorchè la verità).
In più Kate è una giovane pawah, ma è
sensato che lo sia.
Vive comunque un mondo in cui ci sono dei
mostri assetati di sangue, e lei è la figlia dell’uomo più potente e odiato di
Verity: deve difendersi quindi sia dai mostri che dagli uomini che possono
nuocere a suo padre attraverso lei. Per questo nonostante la giovane età è logico
che sia una persona consapevole dei pericoli che la circondano, che nasconde armi
letali che è perfettamente in grado di usare nella divisa, e perfettamente in
grado di usarle, ma anche di rompere una clavicola a un professore di
ginnastica durante una dimostrazione di poco efficaci tecniche di autodifesa
che prevedevano tra le altre cose quella di colpire
un vampiro all’inguine.
Segue immagine di repertorio.
Se Kate è intrappolata in questa spirale di
violenza (cosa che le causa ansia e un continuo stato di tensione fisica ed
emotiva), paradossalmente è August a
essere tra i due il più umano, che è un clichè ma funziona. August, che
nonostante sia un figlio adottivo e non sia nemmeno umano ha un rapporto molto
più intimo e affettuoso con i suoi “genitori” e i suoi “fratelli” (specie con
la sorella Ilsa, costretta a non uscire mai di casa a causa dell’instabilità
del proprio potere) di quanto abbiano mai avuto Kate e suo padre. Non a caso l’unico
momento in cui viene davvero colpito sul personale dalle frecciate di Kate è
quando lei insinua che Henry non sia davvero suo padre.
August è un introspettivo, perennemente in
conflitto con se stesso.
E’ un mostro ma ha sentimenti anche se passa
le ore davanti allo specchio per imitare le espressioni umane; studia
avidamente tutto lo scibile umano per dare un senso alla propria esistenza, si
sente responsabile del gatto appartenuto ad una delle sue vittime al punto da
portarlo a casa per occuparsi di lui e vuole dare una mano a suo padre e alla
gente della città combattendo in prima linea come suo fratello maggiore Leo,
anche se al tempo stesso il pensiero di uccidere un essere umano, per quanto
colpevole, lo riempie di dubbi, e cerca di rimandare quanto più possibile il
momento del prossimo “pasto”.
A un certo punto si chiederà addirittura se
sia giusto quello che fa, se il Sunai
sia effettivamente un portatore di giustizia e la soluzione al problema dei mostri
a Verity, o se invece non sia poi tanto diverso da un Malchai o un Corsai o da
Callum Harker qualunque visto che sembra non faccia nemmeno differenza il
motivo per cui la loro vittima ha dovuto compiere un delitto. Che si agisca per
piacere o per autodifesa l’anima sembra essere ugualmente corrotta, in fondo,
ma a lui non sembra affatto la stessa cosa.
August ha paura di morire senza
lasciare nulla dietro di sé, ma ha anche paura di cedere a un’oscurità
divorante, come il suo integerrimo fratello maggiore che usa il suo potere
senza remore per portare nel mondo non la pace ma la punizione divina. August è
un personaggio di una tenerezza infinita, e per tutto il tempo, come alla fine
del gobbo di Notre Dame di disneyana memoria, viene da domandarsi chi sia il
vero mostro in questa storia.
Risposta:
gli uomini,
ma ci si poteva arrivare facilmente.
Ad accomunare lui e Kate c’è però, oltre all’essere
specialissimi, la voglia di non chiudere gli occhi di fronte a una realtà
scomoda come il resto di Verity. Perché
i mostri imperversano nelle strade ma a scuola non si insegna seriamente l’autodifesa,
la storia è raccontata in modo asettico e propagandistico concentrandosi sulla
sola parte Nord, la gente si sente al sicuro portando al collo dei medaglioni
che possono esser strappati via dal collo il giorno successivo qualora non si
dovessero avere i soldi per comprare la protezione di Callum Harker (e possono
scatenare a loro volta rancori, invidie, e quindi altre violenze da parte di
chi non è così fortunato da possederne uno), chiudendosi in casa al tramonto
quando non sono certo porte chiuse a tenere alla larga i mostri.
Ma quanto potrà durare questa situazione?
Nessuno riflette sul fatto di essere sull’orlo
di una guerra, non sembra importare.
Ma nemmeno li si può biasimare per questo,
perché la paura paralizza e porta a negare le verità scomode, portando ad
aggrapparsi con le unghie e con i denti a una parvenza di normalità. Emblematico
ma umanissimo il fatto che nonostante si sappia benissimo che l’origine di quei
mostri deriva dalla violenza contro un altro essere umano si continua senza
particolari problemi a uccidersi per motivi futili.
*
Grande attenzione viene dato dalla Schwab anche
al worldbuilding: vaghi cenni in
corso di narrazione ma che bastano a schiudere davanti ai nostri occhi il mondo
in cui si muovono i protagonisti, che è il nostro, ma no. Molti capitoli sono
dedicati alla vita a scuola o al territorio urbano, ai cunicoli della metropolitana
o alla natura, ma anche a ciò che accade fuori Verity.
Si passa da una pigra lezione di storia che
ci spiega come si è giunti al sistema politico attuale a seguito di una perdita
di potere del governo centrale degli Stati Uniti a stralci di vita nelle altre
metropoli: separate tra loro da frontiere per proteggere quello stralcio di
normalità che ancora si può sperare di avere al di fuori di Verity (ma per
quanto?), lì i mostri non sono che favole per spaventare i bambini. Si passa dalle
zone semi abbandonate di South City in cui la gente sarebbe abbandonata a se
stessa se non fosse per Henry Flynn alla periferia di Verity in cui vige la
legge di Mad Max.
Il libro attua per tutto il tempo una sorta di zoom all’indietro dal punto di vista dell'ambientazione:
parte presentandoci August nella sua camera zeppa di libri e termina su strade
deserte che si perdono verso l’orizzonte: pagina dopo pagina il mondo della Schwab si
schiude sotto ai nostri occhi.
Un mondo in cui un uomo può disprezzare la
vita mentre un mostro può amarla.
Che messa giù così non è che sia chissà
quanto originale, e non è che i colpi di scena brillino per genialità, ma il libro
mi ha comunque emozionata, e tanto: dà molto
spazio ai suoi personaggi, è scritto con amore e intelligenza e, almeno finora,
evitando qualsiasi facile fanservice per farsi plaudere da una folla adorante
di giovani fanciulle romantiche. A volte basta anche questo a trovarsi di
fronte a un ottimo libro.
Giudizio finale:
Poco fanservice e tanto amore per il proprio mondo |
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