domenica 5 aprile 2020

[Recensione] WORLD WAR Z - LA GUERRA MONDIALE DEGLI ZOMBIE


Autore: Max Brooks
Traduzione: N. Giugliano
Ed. Italiana: Cooper, copertina flessibile, 342 pagine,
Anno (Italia): 2015
Euro: 18,00


Ancora traumatizzata dall’omonimo film del 2013 in cui Brad Pitt per sfuggire a un’orda di non morti rievoca echi manzoniani con effetti comici (dimostrando per l’ennesima volta come Hollywood non solo non abbia idee proprie ma quelle che ruba nemmeno le capisce: come un’organismo vivente, le fagocita per tramutarle in pupù senza nemmeno prendersi il disturbo di confezionare un piatto commestibile, prima. E sto guardando te, Io sono Leggenda), ho cominciato questo libro con molte perplessità, certa di ritrovarmi davanti al più qualcosa di grottesco con cui farmi due risate. Invece no.
Sto gran piffero.
Penso di non aver mai affrontato un libro in questo modo, centellinandone ogni pagina e rifiutandomi di proseguire nella lettura se il cervello non era al massimo delle proprie funzioni (ironico, parlare di cervello in un libro che tratta di zombie): mi sono commossa al punto da versare lacrime in più di un’occasione, sono rimasta angosciata dal crudo realismo, ho provato paura per la plausibile crudeltà e verosimiglianza di certi passaggi e ho riso a più riprese di fronte alle parti più buffe (che non mancano).
A questo proposito ribadisco che nelle storie di zombie non ci sono mai abbastanza suore: anche questo libro infatti ci delizia con sorella Montoya, un turacciolo di 52 anni suonati e 160 cm di altezza che ha difeso i bambini di una scuola domenicale per 9 giorni armata solo di un candelabro lungo due metri. The Walking Dead per piacere scansati che proprio non c’è storia.
Ma è un libro semplice da affrontare?
No, per nulla.

Innanzitutto, come definire World War Z?
E’ narrativa? Sembrerebbe: in fondo è la storia di un’apocalisse zombie, anzi, la cronaca di quanto avvenne durante una guerra di forse una decina di anni prima (il libro non lo specifica). Per essere ancora più precisi è un mosaico incredibile di testimonianze messo insieme quando la civiltà è in fase di ricostruzione (quando è di nuovo possibile viaggiare e collezionare testimonianze di sopravvissuti, cioè) da un solerte giornalista e storiografo, affinché quanto accaduto non venga dimenticato. Ha tratti ironici questo resoconto, storie improbabili che sembrano tirate fuori da un film.
E poi ha cadaveri che tornano in vita e mangiano viventi.
Zombie, o Zom come li chiamano qui, che sono un vero miracolo della fisiologia umana (cui nessuno cerca di dare una spiegazione scientifica valida), visto che vanno contro qualsiasi legge di natura e possono sopravvivere in condizioni normalmente letali per l’uomo, come grandi freddi o profondità marine.

Eppure, definirlo narrativa risulta limitante.
Perché se sostituissimo agli Zom un normale agente patogeno o una qualsiasi minaccia senza nome proveniente dai più remoti angoli della terra quello che ci ritroveremmo in mano sarebbe una lucida e brutale analisi socio politica dell’immediato futuro.
E a mio avviso non è un caso che tra i ringraziamenti sia proprio George A. Romero ad avere un posto di rilievo: perché non solo Romero è stato l’inventore dello zombie cinematografico (quello vero, non quello di Snyder che corre come uno stronzo centometrista), non solo ha gettato le basi della sua fisiologia (il fatto che debba essere lento in quanto vittima di rigidità muscolare post mortem, il fatto che il centro nevralgico della sua esistenza sia il cervello…), ma non ha mai fatto mistero del fatto che gli zombie rappresentassero gli ultimi e i dimenticati, e che la lotta contro di essi fosse una vera e propria lotta di classe contro l'egemonia dominante (non a caso nei ruoli chiave di quei film molto spesso abbiamo personaggi di colore).
Max Brooks in pratica ha ringraziato chi per primo ha usato la figura dello zombie per parlare di politica.


*

Tutto comincia in un remoto villaggio della Cina, Nuova Dachang.
Paese in crescita, economicamente potente, ma in cui resistono ampie sacche di povertà dimenticata dal suo governo, tranne quando è il caso di far evacuare dei poveri contadini per costruire una diga nel luogo in cui dimorano da generazioni. Qui un padre e un bambino recatisi tra le rovine sommerse delle vecchie abitazioni subiscono un’aggressione: il padre non fa più ritorno, il bambino viene morso da una creatura ignota. La nostra prima testimonianza è quella di un medico, Kwang Jingshu chiamato dai locali perché si occupi di questa strana malattia (o incidente, inizialmente nessuno capisce bene quale sia il problema): il bambino si è infatti fatto aggressivo, tanto che si è reso necessario legarlo e imbavagliarlo, e le persone da lui aggredite sono anch'esse deboli e febbricitanti. Giunto sul posto e appurato che qualcosa decisamente non va Kwang Jingshu decide di chiamare un collega per chiedergli consiglio: ques'ultimo sembra non solo strano e reticente ma anche consapevole del fatto che la reazione del governo, che sta controllando la loro telefonata, sarà reprimere e insabbiare con la violenza quanto sta accadendo lì.
E’ come se per il collega fosse qualcosa di già visto molte volte, ma questo dubbio rimarrà sempre nell'area delle teorie complottiste plausibili, privo di una risposta certa in corso d'opera. 

Naturalmente la situazione a Nuova Dachang sfugge di mano.

Si passa al vicino Tibet, dove a parlare è Nury Televaldi, che di mestiere prima della WWZ trasportava profughi cinesi, in fuga da un paese che sta cercando di insabbiare una crisi già fuori controllo, verso Occidente. Incuranti dei possibili contagi, ignari della vera natura del morbo che sta affliggendo questa gente e dei pericoli che avrebbero causato a livello globale, ancora si pensa a fare soldi sulle spalle di questa umanità disperata che cerca solo di fuggire dal contagio e cercare un posto sicuro. Nascono in questo modo i primi focolai in Europa e America.
Tra la disperazione di molti e l'avidità di pochi.

Si arriva poi in Grecia (si segue l’esodo dei profughi come tracciando una lunga linea su una mappa in queste prime fasi), Brasile (dove parla un dottore che eseguiva per conto di ricchi occidentali trapianti d’organi con “materia prima” reperita dalla Cina in chissà che modo. A nessuno in fondo importa fare domande, o controlli medici, finché gli organi arrivano) e Medioriente.

Senza scendere ulteriormente nei dettagli visto che ci porterebbe via una vita (il libro è un mosaico davvero infinito di storie e testimonianze), possiamo affermare che la prima parte del romanzo relativa all’espansione del contagio, che poi è la più interessante dal punto di vista politico, si costruisce su due fattori: l’insabbiamento sulla vera natura di questo morbo da parte dei paesi da cui questo contagio parte (Cina e si presume Russia, che però non renderà mai ufficiali i dati delle proprie perdite e tornerà a tempo record a chiudersi in una dittatura militare dal pugno di ferro) e l’ottusa cecità dei colletti bianchi occidentali.

Fin dall’inizio infatti gira un documento, il Rapporto Warmbrunn-Knight, uno studio internazionale in cui non solo si analizzava il fenomeno ma si attuavano anche dei piani di contenimento che, attuati in una fase precoce del contagio, avrebbero salvato miliardi di vite umane.
Molti non l’hanno nemmeno letto, limitandosi a chiuderlo in un cassetto fino al momento in cui non sarebbe servito più a nulla. In fondo, hanno pensato, ci sono troppe potenziali emergenze per star dietro a tutte.
Chi l’ha letto nei primi tempi ha reputato che non valesse la pena prenderlo sul serio visto che pareva tutto così assurdo, e visto che erano cose che stavano accadendo lontano, in paesi poveri e disperati. Niente li avrebbe mai toccati da vicino. Ci si muove quindi troppo tardi.
E poi poco e male.
Sempre coi piedi di piombo, guidati da vecchi gerarchi che usano metodi antiquati e dispendiosi in termini di mezzi e vite umane, allo stesso tempo con una lentezza esasperante e valutando ogni mossa al millesimo per non perdere la fiducia del popolo (condizione primaria d’esistenza nei paesi democratici), costringendo poi a misure drastiche, come abbandonare sacche di popolazione che avrebbero rappresentato solo un peso. E chi si muove per tempo, come Israele (che decide di ricorrere alla via dell’isolamento), deve vedersela con violente lotte intestine. Non contro i palestinesi, accolti tra quelle mura come fratelli, ma contro gli ebrei ultraortodossi, che paradossalmente a causa delle loro credenze religiose prima di allora non avevano mai stretto un fucile tra le mani.
Dall’altro lato della politica c’è la grande finanza e le lobby farmaceutiche, gli sciacalli dabbene che cavalcano la paura per profitto lucrando su un placebo prima ancora di sapere di che natura sia quella "rabbia africana" di cui si va parlando. Si approfitta di buchi nella legislazione, ambiguità, burocrati corrotti e organi di controllo al collasso.
Max Brooks, come vediamo, non risparmia critiche a nessuno.
Se la crisi è globale, le responsabiltà sono globali.

*

Se la prima parte ci colpisce come un pugno allo stomaco per la lucida analisi socio-politica che porta avanti, la seconda lo fa dal lato umano: è dedicata alla lotta per la riconquista del pianeta dalla minaccia Zom, e ancora una volta Max Brooks non lascia da parte NULLA: i soldati americani armati di tutto punto (con lunghe digressioni tecniche che potrebbero annoiare ma che io ho trovato affascinanti) che devono ritrovarsi a fronteggiare non solo i morti viventi ma anche minacce umane (persone che impazziscono e sono convinte di essere Zom, sopravvissuti resi folli dalla prolungata solitudine, potenziali signori della guerra alla Mad Max, secessionisti che hanno perso la fiducia nel governo centrale, gatti giganti e stronzi); la resistenza Francese che deve muoversi su chilometri e chilometri di angusti cunicoli situati sotto Parigi; le sacche di difesa vecchio stile rappresentate dai castelli europei; la rete web formata dagli otaku giapponesi decisi a trovare quante più informazioni possibili sul fenomeno; lo stress da conflitto che conduce i veterani alla follia; anche alle unità cinofile K9 impiegate in guerra viene dedicato un bellissimo capitolo che, visto il mio notorio amore per i pikkoli ancioli pelosi, mi ha spezzato il cuore. 
Ma soprattutto si affronta il razzismo e la prevaricazione sui paesi nemici, pulsioni umane autodistruttive che non si arrestano neppure in questa situazione d’emergenza globale, in un’eterna spirale d’odio. Il nuovo centro economico e di resistenza diventano, ironicamente, Cuba e il Sudafrica a fronte delle economie occidentali ridotte alla mera sussistenza.
E agghiaccia ma non stupisce che un rappresentante di uno di questi paesi in fase di rinascita in un raduno dell’ONU (o di ciò che e resta) affermi che “forse questa era la punizione che si meritavano per aver violentato e depredato le nazioni del sud. Forse, tenendo “l’egemonia bianca” occupata con quei problemi, l’invasione dei non morti avrebbe permesso al resto del mondo di svilupparsi senza l’intervento imperialista.”
Anche in una situazione di futuro incerto invece di collaborare ci si aggrappa all’odio passato.

*

Per questo Max Brooks ci lascia con una morale amara ma non pessimista.
Ci si augura che le cose cambieranno, e probabilmente sono già cambiate perché non si può pensare che quanto accaduto non lascerà degli strascichi nella gente (sia in positivo che in negativo): non si può dimenticare la morte e la perdita, ma neanche quel senso di unità che ha unito popoli in fuga sotto l’unica bandiera dei viventi, che forse per la prima volta nella storia si sono ritrovati a combattere lo stesso nemico per la propria sopravvivenza.
Ma è nella natura dell’uomo dimenticare.
Forse di crisi globali come Zom ce ne sono in continuazione (come ci fa intuire la reazione fin troppo compassata del collega di Kwang Jingshu a inizio libro), forse ne abbiamo già affrontate, ma nessuno si prende la briga di imparare dal passato. Si può solo sperare che ora, alla fine della WWZ, ciò non avvenga, e che questo circolo vizioso finalmente si spezzi.


Giudizio della Divorastorie: 5/5

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