Traduzione: M. Crepax
Ed. Italiana: Ponte alle Grazie, copertina flessibile, 153 pagine,
Anno (Italia): 2018
Euro: 13,50
Mi capita di essere impietosa con certi libri
e generosa con altri.
Di solito se mi ritrovo di fronte a uno
young adult che sta insultando la mia intelligenza raramente il voto scende oltre
una certa soglia, perché a dispetto dell’irritazione e/o delusione che provo mi
rendo conto di avere comunque tra le mani un’opera ingenua, destinata a un
target di riferimento basso e che non cerca di spacciarsi come dono di dio alla
letteratura.
Poi ci sono i libri che mi vogliono prendere per il
culo.
Quelli che si atteggiano a trattato
filosofico o a profonda riflessione femminista ma grattando appena appena la
superficie si rivelano fuffa più diseducativa delle ship “damina passiva/scimmione
violento col passato triste”. A quest’ultima categoria appartiene Il canto di Penelope di Margareth
Atwood, che già conoscevo per il ben più famoso Racconto di un’ancella, che
ricordo di aver abbastanza apprezzato. Proprio con questi libri il mio giudizio
si fa spietato.
E la cosa mi diverte molto.
E' il momento di essere malvagi... |
Se volessi essere breve e lapidaria riassumerei
questo libro come “l’ennesima beddamadre santissima falsa come una banconota da tre euro si
imbroda per 153 pagine, e cerca di convincere senza successo chi legge di
essere un fulgido esempio di donna e moglie, quando in realtà è l’ennesimo
inutile zerbino di cui le donne moderne non hanno proprio bisogno.”
La storia, come al solito quando una scrittrice si mette in testa di farci entrare nel cuore e nella testa di un’eroina del mito antico, non aggiunge nulla più di quello che si potrebbe apprendere da una lezione sull’Odissea fatta al liceo. Si narra di Penelope, principessa di Sparta, figlia di Icario e Peribea (una ninfa marina) e cugina della famosa Elena: di come ancora neonata fu gettata in mare per ordine del padre e salvata da uno stormo di anatre (da qui il soprannome Anatroccola, ci dice la Atwood). Del matrimonio con Odisseo, della lunga lontananza di lui, della lunga e frustrante attesa in quel di Itaca, tra capre e sassi. Del famoso inganno della “tela”, in realtà un sudario intessuto per il suocero Laerte e disfatto di nascosto la notte assieme ad alcune fedeli servette per ritardare il momento di dover concedersi a uno dei giovani nobili giunti a prendere il posto del defunto marito.
Ora Penelope si è lasciata alle spalle le opime spoglie mortali.
Nell’Ade, come spirito, ha finalmente, dice lei, occasione di
mettersi a nudo e raccontare la verità per difendersi dalle calunnie subite sia
in vita che dopo: nella realtà il suo sarà un ignobile pippone da piagnina in cui non verranno lesinati
ditini puntati verso chiunque non siano lei e il suo degno marito.
Le premesse, a dire il vero, erano incoraggianti.
Penelope nelle prime pagine del romanzo sembra
disprezzare l’immagine che la storia dà di lei: “Una
leggenda edificante. Un bastone con cui picchiare le altre donne. Non avrebbero
potuto essere assennate, oneste, pazienti com’ero stata io?”, dice amaramente di
sé, e subito dopo sembra prendere le distanze dal modo in cui interagiva col
marito: “Io
certo riconoscevo gli indizi della sua scaltrezza, della sua malizia e della
sua assenza di scrupoli, ma cercavo di non dar loro peso. Tenevo la bocca
chiusa, o se l’aprivo era per tessere le sue lodi. Non lo contraddicevo, non
gli rivolgevo domande che potessero infastidirlo, non approfondivo le
discussioni. A quel tempo credevo nelle soluzioni felici, che
si ottengono tenendo chiuse le porte e andando a dormire se soffia la tempesta.”.
La morte, parrebbe a una prima analisi, gli ha
portato saggezza, parla al passato e con un certo distacco, come se quella
Penelope le fosse estranea. Però già vediamo che la cosa che più le preme è
difendersi dalle brutte voci.
E quali sono queste brutte voci? Che non è stata abbastanza
fedele e paziente.
E qui chi si aspettava una visione sovversiva
del personaggio può cominciare a sudare.
Andando avanti le cose peggiorano e sembra di ritrovarsi nel più becero dei gruppi di mamme pancine: l’arcinemica mortale di Penelope infatti, ed è una cosa che verrà rimarcata per tutte e 153 le pagine di questa incessante martellata ai coglioni, è Elena, qui proposta in una versione assolutamente nuova e mai affrontata dalla letteratura mondiale, la femme fatale egoista e cornificatrice che tanto fa soffrire il povero, ricco e ingenuo Menelao.
Penelope ci tiene subito a prendere le distanze
da lei:
“Non ero una divoratrice di uomini, non ero una sirena, non ero come mia cugina Elena che voleva sedurre solo per dimostrare di poterlo fare”.
In due righe viene identificata Elena: una civettuola ben confezionata col piglio da arrogante Queen Bitch del liceo, immancabile se vuoi ispirare le simpatie della lettrice anatroccola che non vuole essere un mignottone incipriato. Quando dovrà affrontare i proci ci terrà a ribadire più volte che lei FINGE di non disprezzare il loro corteggiamento, così come mai nella vita s’è sognata di cedere all’amore fisico anche se alcuni invidiosi dicono tutt’altro.
Peccato che la gallina che canta ha fatto
l’ovo…
Ma non lasciamoci distrarre, ora stiamo
parlando della demoniaca maliarda di Troia:
“Spesso ripetei a me stessa che forse, se Elena non fosse stata accecata dalla vanità, saremmo stati risparmiati dai dolori e dalle sofferenze che il suo egoismo e la sua folle bramosia scaraventarono sulle nostre teste. Non avrebbe potuto condurre una vita normale? No, le vite normali sono noiose e Elena aveva troppe ambizioni. Voleva essere celebre, non far parte del gregge.”
Aveva ambizioni ed essendo molto bella voleva
attenzioni, in soldoni.
Un reato punibile con l’impiccagione a Langtry,
Texas.
“Telemaco era andato da Menelao. Proprio da Menelao. Menelao il ricco, Menelao lo zuccone, Menelao dalla voce forte, Menelao il cornuto, Menelao il marito di Elena – di mia cugina Elena, Elena la bella, Elena la cagna velenosa, causa principale di tutte le mie sventure.”
Non appena smetto di ridere per questa ignobile sagra del luogo comune e continuo a sperare che il libro sia una presa per i fondelli al lettore e termini con Elena che salta fuori dalla pagina e grida “vi ho trollato tutti, Penelope è una sfigata, viva la figa e abbasso Odisseo!”, comincio a pensare che Penelope abbia un serio problema a comprendere la realtà, soprattutto fatichi a comprendere di aver sposato un coglione.
Tratto tipico di tutte le persone intelligenti.
Perché forse se ci riflettessi un attimo, Penelope, potersti scoprire che la
causa principale di tutte le tue sventure potrebbe essere proprio tuo marito, che in passato ha
chiesto la mano di Elena perché era una bella guagliona di stirpe nobile e poi
ha ripiegato su di te, che ha fatto patti di alleanza militare con altri
principi della zona senza sapersene poi svicolare al momento di partire alla
volta di Troia (segno che forse non è così tanto furbo come afferma di essere, e
in questo vi siete trovati, onore al merito), che non sa tenersi il pisello
nella tunica e va offrendo piacere a tutte le ninfe del mediterraneo. No?
No.
Penelope è talmente ossessionata da Elena da non pensare quasi ad altro, divorata dalla paura che possa sedurle il marito anche se la si sente affermare a più riprese che proprio non è attratta dalle capre di Itaca e dalle gambe corte di Odisseo (in più, non è certo persona da farsi irretire dalla sua lingua d’argento visto che “sa solo sedurre”, anche se a conti fatti la cretina infelice mi sembra un'altra). Da donna superiore e modello di femminilità da perseguire, arriverà al punto di trarre godimento dalle pietose bugie di Telemaco di ritorno dalla corte di Menelao, che la descriverà come un cesso rugoso al solo scopo di far piacere alla madre. Brava Penelope, la tua rivale ha le rughe, gioisci anche se non è vero e costringi tuo figlio a prender parte a sto teatrino pietoso!
Tutto questo femminismo comincia a darmi alla testa…
Neppure nell’oltretomba viene concesso ad Elena un momento di umanità, neppure per un secondo a noi lettori viene fatto venire il dubbio che forse oltre alla puttana descritta da una invidiosa Penelope ci sia qualcosa di più. La vedremo vagare con uno stuolo di fan al seguito pronta a denudarsi prima di fare un bagno, e a fare la solita gara a chi piscia più lontano con la cugina.
Anche con Clitennestra
del resto non si va leggeri.
Ma chi può raggiungere gli standard
inarrivabili di Penelope?
Anche se non è poi tutto sto emblema di
innocenza che ambisce a diventare ai nostri occhi visto che a causa sua,
le farà notare la cugina, Odisseo ha ucciso molti innocenti tra cui dodici
ancelle a cui dice essere particolarmente affezionata (talmente affezionata
da non aprir bocca in loro difesa per non indispettire il marito), cosa che, sia
chiaro, passa immediatamente in sordina perché Elena lo fa presente solo per
fare un paragone coi suoi morti, che sono molti di più, e non per sbattere in
faccia alla cugina la sua irritante ipocrisia. E francamente già quando è stato
pubblicato a fine 2005 non mi sarebbe parso il caso di continuare a perpetrare
questo becero e gratuito slut shaming (specie da parte di un’autrice che viene
spacciata come femminista), figurarsi quando me lo ritrovo davanti nel 2020.
*
Quando il libro si concentra su Odisseo la situazione
non migliora.
Tra i due non c’è alcuna complicità o affetto,
del resto Ulisse è ingannatore e non hanno comunque molto tempo da passare
insieme per conoscersi, e visto che le interazioni tra marito e moglie
all’epoca erano queste fin qui non ci sarebbe nulla di male se l’intero libro non fosse la
testimonianza di un’ombra pienamente consapevole di sé: eppure anche da
morta Penelope passa il tempo a negare l’evidenza nonostante, ricordiamolo, lei
dovrebbe essere un esempio di saggezza.
Il loro matrimonio invece sembra una puntata di Amore criminale.
Odisseo riesce a irretirla a 15 anni con poche
belle paroline, riuscendo a far sentire importante una ragazza timida e
introversa e forse bruttina: parlano per ore dopo il sesso (leggi: Odisseo
parla e si perde in vanterie e lei per quasi tutto il tempo ascolta, perché non si deve sottovalutare il
dono dell’ascolto), Odisseo le fa
poco velatamente capire che se qualcuno scoprirà il segreto del loro talamo
nuziale (il fatto che una delle colonne del letto sia intagliata da un ulivo
che ha ancora le radici piantate nel terreno) vorrà dire che lei lo ha tradito
e che verrà sgozzata come una capra. Lei finge di prenderla a ridere ma sa che
è serio e la cosa la terrorizza. Però è tutto molto idilliaco, almeno finché
lui non deve partire alla volta di Troia per colpa di Elena.
Penelope resta sola col figlio Telemaco, che vede a malapena viziato com’è dalle serve di casa e su cui quindi non esercita alcuna autorità, e coi propri pensieri, praticamente inesistenti se escludiamo gli improperi contro Elena. In mezzo a questo vuoto siderale l’autrice deve ricordarci ancora una volta che Penelope è saggia facendole prendere in mano con piglio da lord inglese dell’Ottocento l’organizzazione della casa e di tutti i beni materiali del marito (possedimenti che, ci tiene a specificare, se non fosse stato per gli stravizi dei pretendenti sarebbero a dir male raddoppiati).
Cosa significa per Penelope il primo assaggio di
libertà e responsabilità? Come ricorda da morta il primo momento in cui
può dimostrare al mondo di avere effettivamente un cervello?
“Avevo
un quadro ben chiaro nella mente: Odisseo tornato a casa e io – con femminile
modestia – che gli dimostro come sono stata brava nel dedicarmi a un lavoro che
di solito è riservato agli uomini.” … Forse
per questo nel libro Argo non compare, la vera bestia fedele è lei e il cane a
confronto sarebbe sembrato un povero stronzo.
Le giungono poi voci dai viaggiatori di passaggio sulle peripezie di Odisseo per mare: i lutti, le avventure, le ninfe e le dee con cui ha prolungati incontri d’amore (c’è chi parla invece di semplici rendez-vouz con principesse mortali e prostitute, ma Penelope che è saggia – ricordiamolo sempre - preferisce la versione con le divnità, perché si vede che se tuo marito si tromba una maga le corna prudono meno).
Subisce le avances sgradite dei
pretendenti, il disprezzo del figlio.
Poi, Odisseo ritorna, ma visto che siamo in una
rivisitazione moderna e femminista del mito lei non resta sinceramente sorpresa
dal suo travestimento, visto che sono vent'anni che non vede il marito e sembra
logico che non lo riconosca, no no: questa Penelope è intelligente e lo
riconosce subito dalle gambe corte.
A questo punto immagini che
Odisseo sia così:
Ecco il momento del fatale incontro:
“Non
gli mostrai d’aver capito. Sarebbe stato pericoloso per lui. E poi quando un
uomo è orgoglioso della propria bravura nel travestirsi è sciocco che la moglie
palesi di averlo riconosciuto: è sempre imprudente mettersi tra un uomo e la
dimostrazione delle sue capacità.”
… Ma vaffanculo a te e a chi t’ha scritto così!
Dopo aver sbrattato di sangue le mura del palazzo modello ascensore di Shining e evirato un capraio traditore il primo pensiero di Odisseo è rassicurare la moglie: è sempre bellissima, ha sempre pensato a lei, e Penelope la saggia ci casca con tutti i calzari e sogna il suo happy ending come tutte le principesse Disney che si rispettino.
Invece no.
Perchè a inizio libro forse non ci abbiamo
fatto caso ma Penelope durante tutto questo pippon... monologo è sola. Ed è sola perché nell’aldilà a
quanto pare si ha la possibilità di restare spiriti, mantenendo la
consapevolezza di sè e una visione chiara delle cose
terrene, o bere dal fiume dell’oblio e reincarnarsi sulla Terra. Odisseo
ovviamente son millenni che si reincarna a catena di montaggio (in politici,
guerrieri, attori del cinema, manco si riesce a tenere il conto…), si fa la sua
vita, poi torna dalla moglie e frigna perché il suo unico desiderio è quello di
restare con lei. Piange mentre lo dice. Poi per reidratarsi dopo tante lacrime corre al fiume
dell’oblio, ci si sfonda come un cammello e via, verso nuove mirabolanti
reincarnazioni. Ma non perché lui è un cazzaro.
È una ”forza misteriosa” a
strapparlo via da Penelope.
Trattasi infatti del rancore millenario delle Dodici ancelle infedeli fatte impiccare da Odisseo e Telemaco al suo ritorno perché ree di aver cospirato insieme ai proci, ancelle che qui fungono da coro (che richiamano alla tradizione del tealtro antico) e ennesima giustificazione al comportamento di un marito di merda da parte di una moglie intelligente quando le finiscono i motivi per incolpare Elena, il fato avverso, gli dei, o il gatto del vicino con la diarrea.
A questo proposito, un capitolo (il 24esimo) sarà
dedicato a un’interessante analisi antropologica dietro al mito: le dodici ancelle
infatti sarebbero in realtà sacerdotesse di un antico culto matriarcale legato
alla luna, con Penelope nel ruolo di gran sacerdotessa ed emanazione in terra
della Dea Madre, un rito che prevedeva la scelta di un uomo che regnasse per un
anno a fianco della sacerdotessa per poi essere sacrificato mediante evirazione
e uccisione (come accade al guardiano di capre infedele nell’Odissea,
giustappunto). Odisseo o chi per lui in tempi antichi avrebbe spezzato questo
cerchio imponendo con la violenza in quei territori un culto patriarcale.
Capitolo interessante, dicevamo. Talmente
interessante che viene paro paro dagli studi di Robert Graves.
*
Il canto di Penelope è un libro
che propone per l’ennesima volta, con la scusa di star affrontando la
rivisitazione di un mito antico (che di rivisitazione ha poco visto che la
Atwood non inventa nulla), una protagonista sottomessa, umile, asservita a un
uomo che la prende in giro e non la rispetta, pronta a giustificare qualsiasi
nefandezza compiuta da lui ai suoi danni ma anche a puntare il dito con
impietosa crudeltà contro donne ree di non condividere la sua morale e i suoi
valori, e con cui noi addirittura dovremmo empatizzare.
Invidiosa della libertà sessuale di Elena, ne
fa una nemica per l'eternità.
Tradisce serve e amiche fedeli per non
indispettire il marito.
Fa passare le sue debolezze per virtù femminili.
L’unico canto avvertito durante la lettura è
stato il mio, quando ho levato alti gridi di giubilo alla fine di questa
cazzata. In conclusione di questo lungo pippone, per usare le parole della mia amica Wendy, a tutte le soavi fanciulle lì fuori che masticano un po' di inglese dico:
Giudizio finale:
Devastante martellata alle parti intime sull'ennesima piagnina cornuta |
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