domenica 10 gennaio 2021

[Recensione] IL CAPOFAMIGLIA

Recensione di "Il capofamiglia" di Ivy Compton-Burnett (1935)
Titolo originale: A House and its Head
Autore: Ivy Compton Burnett
Traduttore: M. Francescon
Edizione: Fazi, copertina flessibile, 348 pagine
Anno: 2020
Euro: 19,00 | Ebook: 9,99

Qualche informazione sull'autrice:
Ivy Compton Burnett nasce nel 1884 nel Middlesex in Inghilterra (che fa ora parte della municipalità di Londra): settima dei dodici figli del medico omeopata James Compton-Burnett, viene educata in casa insieme ai suoi fratelli fino a 14 anni, quando viene spinta dall'amorevole matrigna ad acculturarsi quanto più lontano possibile da lì.
Definirla riservata è un eufemismo:
"Sono stata educata coi miei fratelli in campagna quando ero bambina, poi ho studiato all'Holloway College e ho preso una laurea in lettere classiche. Ho vissuto insieme alla mia famiglia da giovane, ma per la maggior parte della mia vita ho avuto un appartamento di mia proprietà a Londra. Ho un discreto numero di buoni amici, non tutti sono scrittori. E non c'è davvero nient'altro da dire".
Nient'altro a parte sistematici abusi in famiglia, lutti (comprese due sorelle minori, Stephanie Primrose e Catharine, morte per un patto suicida il giorno di natale) e otto figlie rimaste talmente traumatizzate dalla vita in casa Compton-Burnett da optare per lo zitellaggio, di cui una che sceglierà la carriera di romanziera e passerà l'esistenza ad affidare alla consolazione della penna quanto subito. Ne risultano romanzi arguti ma incredibilmente amari in cui la sicurezza del nido domestico lascia il posto a una prigione, e l'affetto a quotidiane nefandezze di ogni genere; frecciatine perfide, ipocrisia, avidità, ma soprattutto abuso di potere verso i membri deboli del nucleo familiare, le donne. 
L'idillio familiare vittoriano è scardinato nelle fondamenta.
Se mai qualcuno ha trovato idilliaco il modello di famiglia vittoriana, s'intende.

L'autrice (che ha scritto una ventina di romanzi che sono praticamente stralci della stessa storia, la sua, riproposta da più punti di vista) è una riscoperta periodica delle case editrici nostrane, che forse per vendere qualche libro in più accomunano Ivy Compton Burnett a un'autrice ben più redditizia, Jane Austen: onestamente fatico a cogliere la somiglianza se non vagamente nel background (anche se la Austen opera nel primo Ottocento e la Compton-Burnett alla fine del secolo) in una certa arguzia dei dialoghi, ma se alla fine di un libro della Austen mi sento sempre allegra e non dico romantica ma meno disgustata del solito dagli happy ending, alla fine di questo libro volevo solo buttare la testa nel forno e accendere il gas.

DUE RIGHE DI TRAMA

Siamo nel 1885. 
Il libro si apre al momento della colazione in casa Edgeworth, una famiglia di proprietari terrieri di campagna che non abitano proprio a Pemberley ma sono comunque discretamente benestanti. Duncan Edgeworth, il capofamiglia che dà il titolo al romanzo, e sua moglie Ellen, aspettano che le figlie Nance e Sybil e il nipote Grant scendano per scartare i loro regali di Natale, quindi da copione dovrebbe essere un momento di placido volemose bbene e tenera ipocrisia, regali, dolcetti, buoni propositi per l'anno a venire e tutto il cucuzzaro, ma fin dalle prime battute notiamo che qualcosa non quadra.
"Non sono ancora scesi i ragazzi?" disse Ellen Edgeworth.
Suo marito le lanciò un'occhiata, poi si mise a guardare la finestra.
"Non sono ancora scesi i ragazzi?"ripetè lei dando alla frase un accento interrogativo.
Il signor Edgeworth s'infilò due dita sotto il colletto e si sgranchì il collo.
"Sei sceso per primo oggi, Duncan." disse sua moglie, tentando di porgere la sua osservazione in una forma più accettabile.
Duncan si adombrò e tornò a ficcarsi le dita sotto al colletto.
Bastano poche battute per inquadrare il rapporto tra i due coniugi: un marito alto e scostante, dagli occhi e i capelli grigi, fin troppo consapevole della sua posizione di potere all'interno della famiglia che interagisce con la moglie smunta, giallastra, bassina eppure inspiegabilmente soddisfatta della sua situazione. Insomma, non siamo all'insegna della complicità coniugale.
All'arrivo dei giovani abitanti della casa le cose non migliorano: il tavolo della colazione è un campo di battaglia verbale, dove sotto la parvenza di una conversazione apparentemente civile e uno scambio di regali affettuoso si consumano rancori, frecciatine, abusi e giochi di potere. Ma se con le due figlie zitelle e la moglie gioiosamente sottomessa Duncan ha gioco molto più facile nel battersi il petto e mostrare i genitali da brava scimmia alfa, essendo donne e quindi escluse dall'asse ereditario secondo le leggi inglesi, le gare a chi ha il pisello più grande si svolgono principalmente con il nipote, figlio del suo defunto fratello, che alla sua morte in assenza di eredi diretti maschi ne erediterà il patrimonio.
"Che libro è quello, Grant?"
Grant pronunciò il titolo di un trattato scientifico ostile alla fede che si celebrava quel giorno.
"Ricordi che mi sono rifiutato di regalartelo?"
"Ricordo bene, zio. E' per questo che l'ho chiesto a qualcun altro. "
"E a quella persona hai detto anche che non lo volevo in questa casa?"
"No. Altrimenti non mi sarebbe stato regalato."
Duncan prese il libro, marciò verso il caminetto, lo buttò tra le fiamme.
"Padre, ma insomma!"
"Insomma, Nance, sì! E' mio dovere fare tutto il possibile per guidarvi, o per forzarvi se necessario, verso la retta via. Se non lo facessi, non potrei sopportarne le conseguenze."
[...]
"Tu lo hai letto il libro, padre?"
"Dalla prima all'ultima parola. Ogni singola pagina trasuda veleno. La mia copia ha avuto la stessa sorte di questa."
"Dunque sei qualificato a valutarne l'influenza. E il rogo ti è parso l'unico destino adeguato a quel libro?"
"E Grant invece avrebbe dovuto capirlo soltanto dal titolo?"
"Credi davvero che mi faccia piacere trasformare un momento che dovrebbe essere lieto e sereno in una lite familiare? Credi davvero che ci provi gusto, Nance?"
"Comincio a credere che la cosa ti riesca piuttosto naturale, padre"
Insomma, forte delle sue esperienze di prima mano, la Compton-Burnett svela già in un pugno di pagine le tirannie che si nascondono dietro le mura domestiche di una famiglia rispettabile: anzi, è soprattutto all'interno del nucleo familiare che chi ha il potere non esita a usarlo contro chi gli è subordinato, con un certo gusto e una bella dose di ipocrisia.
Le cose non possono che peggiorare.
La morte prematura della moglie Ellen viene accolta dal marito con l'aplomb tipico dell'epoca: la giusta dose di disperazione e serena dignità di fronte agli amici, un po' di vittimismo davanti ai parenti che non capiscono quanto stia soffrendo, spese pazze per offrirle un funerale degno di una donna del suo rango (il tentativo di fargli notare che è piuttosto ipocrita spendere più per onorare una defunta che per offrirle agi da viva sarà accolto da Duncan come disfattismo deprimente), ma soprattutto un matrimonio a tempo record con una donna conosciuta a casa della sorella: una ragazza di quasi 40 anni più giovane di nome Allison
Non vedevo un vedovo così affranto
dai tempi di Scarlett O'Hara che piange la morte
di Charles Hamilton.
La presenza di Allison, una donna giovane e bella ma soprattutto fertile e in grado di dare all'odioso capofamiglia il tanto agognato erede maschio a scapito dei diritti accampati da Grant, sconvolgerà un equilibrio già delicato e ora irrimediabilmente compromesso dalla morte di Ellen.
La storia assumerà toni a dir poco grotteschi. 
Di pagina in pagina, in un crescendo di accadimenti che virano inesorabilmente verso il noir, il velo viene a cadere e ci verrà mostrato con brutale sagacia cosa si nasconda in realtà dietro la facciata delle rigide convenzioni sociali vittoriane e la sua sterile affettazione: meschinità, rancori, invidie, egoismo, avidità ma soprattutto rabbia e odio che spingono non solo a dire le più atroci e insensibili cattiverie sul letto di morte (quando si ha finalmente il lusso di poter essere davvero sinceri) ma a commettere turpi atrocità e scandali degni di una telenovela argentina. Tutto sarà puntualmente tenuto celato al mondo esterno, compresi gli amici più cari (nel pratico un coro di voci pettegole, seppur in buona fede e amicizia, e pressoché indistinte sullo sfondo) per evitare scandali.

*

IMPRESSIONI SPARSE

Il capofamiglia, uno dei romanzi preferiti della stessa Ivy Compton Burnett, risulta essere peculiare, per non dire rivoluzionario se lo consideriamo in virtù della tradizione letteraria dell'epoca tardo-vittoriana, a cominciare dalla forma: viene a mancare una vera e propria voce narrante se non quando si tratta di descrivere con rapidi cenni l'aspetto di un personaggio o l'azione in corso, col peso della storia affidata quasi esclusivamente ai dialoghi, quasi ci si trovasse davanti a un canovaccio teatrale. 
Questo rende la lettura non scorrevolissima.
Al lettore non è permesso di spegnere il cervello neanche per un secondo: a lui è lasciato l'arduo compito di riempire gli spazi lasciati vacanti (e non sono pochi), cogliere le numerose sfumature e i non detti presenti all'interno del testo senza farsi sviare da ciò che invece viene detto da personaggi schiavi di convenzioni sociali rigide e opprimenti; personaggi di cui, e ne saremo sempre più consapevoli man mano che avanziamo nel racconto, non possiamo fidarci neanche un po' e per i quali non c'è da provare la benché minima empatia. L'umorismo è sottile, grottesco, cinico brutale e spiazzante come nella miglior tradizione british, con personaggi che per tutto il tempo nascondono le frecciate più bieche, i delitti più turpi, un disprezzo divorante ma anche i sentimenti più nobili dietro la maschera del rigido perbenismo vittoriano: un mondo opprimente e rigidamente gerarchico in cui conta solo che niente (nel bene e nel male) trapeli al di fuori delle mura domestiche.

Promotore massimo di questo modo di pensare all'interno della storia è il capofamiglia che dà il titolo al romanzo, Duncan Edgeworth: in quanto vertice della piramide sociale sia all'interno che all'esterno del nido domestico (in quanto pater familias di una famiglia benestante) ha ben chiaro quale sia il suo ruolo ma soprattutto quale sia quello degli altri.
La famiglia gli gravita intorno al ritmo dei suoi umori e del suo rigido sistema morale, e mentre la prima moglie Ellen lo accetta placidamente o
gni tentativo di insubordinazione da parte delle figlie ma soprattutto dello scapestrato nipote viene preso come un attentato alla sua autorità e trattato di conseguenza: con disprezzo e sarcasmo che ricordino al malcapitato interlocutore di stare al proprio posto.
E' una figura talmente opprimente nella vita dei suoi familiari che questi pur odiandolo arrivano a sentirsi spaesati, "nave senza timone" in sua assenza.
Egli stesso è però schiavo del suo ruolo e di ben precise responsabilità, proprio per il timore di perdere il potere che esercita su familiari e amici: impossibilitato ad "andare in giro col cuore in mano" persino alla morte della moglie (a causa di un malessere che non ammetterà mai di aver colpevolmente sottovalutato, ovviamente) si ritroverà ad indossare sempre la maschera più adatta all'occasione e a fare sempre la cosa più giusta secondo i principi del tempo: tenere in seno alla famiglia l'erede incostante e libertino perché prenda a cuore la sorte delle figlie, e magari ne sposi una (non importa quale); tenere il lutto come ci si aspetta da un uomo nella sua posizione e poi al momento giusto prendere una nuova moglie che possa sostituire la prima ripristinando l'equilibrio familiare andato perduto; educare un figlio bastardo come un erede; riaccogliere al nido libertini, assassini e traditori.

Tutto questo non deve indurci a identificare in Duncan l'unico cattivo della storia: ne Il capofamiglia non c'è un personaggio che si salvi: tutti, soprattutto i più insospettabili, finiranno per dar mostra del peggio di sé in un crescendo di rancore, gelosia e avidità. La sfiga e la malignità umana si abbattono sugli Edgeworth con precisione chirurgica, ed esattamente come farebbe il tanto disprezzato Duncan la risposta degli altri membri della famiglia e dei loro più intimi e fidati amici sarà buttare la polvere sotto al tappeto: nascondere gli scandali e i crimini, sedare sul nascere i pettegolezzi, stringere i denti e andare avanti a testa alta e schiena dritta perché tutti, in special modo gli amici più cari e fidati, saranno sempre pronti dietro un sorriso e una premura a giudicare ogni mossa fuori dall'ordinario.

In soldoni con questo romanzo Ivy Compton-Burnett si scaglia con crudele ironia contro l'ipocrisia perbenista del tempo che non risparmia nessuno: alla fine si è tutti immersi negli stessi liquami, si obbedisce ciecamente alle stesse tradizioni e si indossa tutti le stesse maschere, maschere che vengono tolte quasi esclusivamente in punto di morte, con risultati tragicomici.
La prima a permettersi questo lusso è Ellen, la prima moglie:
Sybil allora si chinò su di lei.
"Mamma, sai che ti ho sempre voluto bene?"
"A me?" disse Ellen guardandosi intorno in preda a un curioso smarrimento, come se avesse sentito una voce distante, "Nance sì, mi ha sempre voluto bene, per quanto ne so. Per me i sentimenti vanno manifestati"
Ci fu silenzio mentre Sybil si avvicinava a lei di nuovo e Nance si faceva da parte, come riconoscendo di aver già avuto abbastanza.
Sembra un vizio delle madri di questo romanzo, svelare chi è il preferito al momento di tirare le cuoia (preferito che è immancabilmente quello che si sbatte di meno per la genitrice), dal momento che la stessa scena si ripeterà con la signora Jekyll, la madre di Cassie, verso la fine del romanzo.
La seconda a smettere la maschera è Allison, la vera intrusa in questa pantomima, il personaggio più sincero e forse proprio per questo il più difficile da inquadrare, che fin dalla sua entrata in scena cerca a più riprese di smascherare l'ipocrisia nascosta dietro i sorrisi affettuosi che le vengono rivolti in virtù del suo status:
"Siete davvero gentili a tenermi al riparo dai vostri veri sentimenti. E' ovvio che mi vediate come un'intrusa che non ha alcun diritto di stare tra voi."
"Oh, no, signora Edgeworth, questo genere di sentimenti li abbiamo abbandonati da un pezzo!"
"Ma devono essere stati sentimenti molto intensi, vero? Io sono per il rispetto del passato, sempre e comunque."
"Lo immagino il suo rispetto per il passato e per noi. Ma ribadisco che non erano sentimenti intensi. E sono svaniti quasi subito."
"Non subito, dunque? Sono lieta di sentirlo, mi sarebbe dispiaciuto interferire coi vostri sentimenti più profondi."
Allison è il tornado che sconquassa gli equilibri familiari, scatena i sentimenti più violenti e il biasimo relativamente più esplicito, ed è proprio grazie a lei che la ragnatela di ipocrisie e falsità vista finora comincia a sgretolarsi davanti ai nostri occhi: Allison conquista un vedovo apparentemente inconsolabile e pieno di rimorsi in pochi mesi; seduce Almeric, un amico di famiglia e apparente interesse amoroso di Sybil (che in seguito a dispetto della disperazione sarà la più svelta ed entusiasta ad accettare le avances del cugino, perché il suo ruolo di potenziale erede del patrimonio di famiglia non fa schifo perché ha sempre amato lui); regala un figlio a Duncan, il quale sarà sempre prodigo delle attenzioni che gli altri si aspettano abbia per suo figlio perché il suo ruolo di erede legittimo non venga mai messo in discussione anche quando risulterà che il vero padre altri non è che Grant; non ha timore, una volta scoperta, di rivelare che l'idillio dei primi mesi nei confronti del marito è ormai un lontano ricordo e, senza destare scandali, leverà le tende in silenzio e dignità. 
Non ne sentiremo parlare mai più nel corso della storia.
Sarà solo il terzo matrimonio, quello "giusto", con la fedele Cassie, ad avviare la narrazione verso il ripristino dello status quo, che è la cosa più vicina a un happy ending che si possa chiedere a questo romanzo e in generale all'intera bibliografia della Compton-Burnett.
Con buona pace delle presunte somiglianze con la Austen, che continuo a non cogliere al di là di vaghi spunti superficiali come la presenza di persone che si raccontano cazzatelle sullo sfondo della campagna inglese.
Ma a quel punto è ispirato a Jane Austen pure Winnie the Pooh...

*

IN CONCLUSIONE. . .

Il capofamiglia è un lungo, sfibrante e claustrofobico conflitto verbale, una gara a chi ce l'ha metaforicamente (ma non solo) più lungo dai toni sempre più grotteschi e tragicomici tra chi ha il potere ed è ben determinato a mantenerlo e chi lo subisce. Un percorso a ostacoli in cui vince chi si fa buttare addosso meno cacca degli altri.
Regna sovrano il cinismo.
Per la Compton-Burnett, e non stupisce nemmeno un po' vista la sua poco idilliaca storia personale, la famiglia non è un sostegno ma un ostacolo, chi dovrebbe custodire e proteggere i membri lasciati indietro dalla legge (una legge che tiene lontane le donne dall'asse ereditario e contro cui l'autrice sembra scagliarsi con un'ironia sottile quanto un baobab) è immancabilmente un despota che gode della propria posizione di dominio, dagli amici ci si deve guardare affinché non vengano a scoprire gli scheletri che hai provato a tenere tanto faticosamente negli armadi, e come ciliegina sulla torta non solo non si può contare sull'affetto disinteressato di chi ci ha fatto nascere ma non si ha nemmeno il sostegno seppur vago della fede:
Il discorso [del pastore] prese il tono di una lezione piuttosto che di un sermone, come a dar ragione a quel parrocchiano che una volta aveva detto che la sua fede era troppo profonda per mostrarsi in superficie. In realtà quanto a fede l'unico livello che gli interessava era proprio la superficie, perché i livelli più profondi li aveva abbandonati da anni. 
Lo scetticismo non lo aveva spinto a lasciare la veste, in quanto questa gli fruttava un piccolo reddito, aveva una madre vedova di cui occuparsi e non possedeva altri talenti da mettere a frutto. Sperava tuttavia di svolgere le sue funzioni meglio di come avrebbe fatto una persona più stupida, muovendo dal presupposto che un credente lo sarebbe stato quasi di certo.
Lo stile è solo apparentemente leggero: il romanzo è ben lungi dall'essere un'opera di evasione da sfogliare distrattamente per rilassarsi. La narrazione necessita invece di continua attenzione da parte del lettore, in quanto si basa quasi totalmente su arguzie, sfumature, piccole incongruenze sullo sfondo di una routine deprimente in cui ci si parla addosso finché i personaggi diventano un tutt'uno indistinto; minuzie fuori posto a cui i personaggi del racconto fingono di non badare finché la bomba non esplode letteralmente loro in mano. A quel punto si fa a gara a chi ignora meglio l'elefante nella stanza, e il gioco può ricominciare all'infinito.
Perché alla fine nulla cambia.
Viviamo in una valle di merda e chi crede il contrario è un fesso.
Sipario (e il mio plauso personale, per quello che vale, alla casa editrice Fazi che coraggiosamente, e con un ottimo lavoro di traduzione da parte di Manuela Francescon, propone al pubblico italiano un'autrice decisamente anomala all'interno del nostro panorama editoriale: ironica, caustica e fatalista, di non facile ricezione).
Giudizio finale:

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