venerdì 5 marzo 2021

[Recensione] DIO ODIA IL GIAPPONE - ROMANZO D'AMORE E FINE DEL MONDO, di Douglas Coupland

Recensione | Dio odia il Giappone - Romanzo d'amore e fine del mondo, di Douglas Coupland (2012)
Titolo originale:
 God hates Japan - Kami wa Nihon wo Nikunderu
Autore: Douglas Coupland, Michael Howatson (illustrazioni)
Traduttore: A. Mioni
Edizione: ISBN Vinili, copertina flessibile, 224 pagine
Anno: 2012
Euro: 9,00 | Ebook: 4,23

Premesse:
Un libro dallo sviluppo editoriale peculiare quello di Dio odia il Giappone: la storia ruota attorno alla generazione della baburu keiki (la bolla speculativa giapponese scoppiata nel 1991 che diede inizio a un lungo periodo di deflazione, il primo arresto economico dal secondo dopoguerra), la generazione che ha sperimentato quel senso di profondo smarrimento e perdita delle ideologie che in Occidente identifichiamo col Postmodernismo, ed è narrata dal canadese Douglas Coupland, un uomo che i giapponesi definirebbero un gaijin (straniero). Nonostante ciò il libro viene scritto in giapponese (cosa che non stupisce dal momento che Coupland ha studiato e vissuto a lungo a Sapporo e a Tokyo), impaginato ed editato alla giapponese e destinato inizialmente al solo mercato giapponese, dove vedrà le stampe nel 2001.
Bisognerà aspettare il 2012 per avere un'edizione italiana.

Dio odia il Giappone è un romanzo che non vuole condurre da nessuna parte ma solo fargli toccare con mano un disagio generazionale che è riflesso di quello che prova il lettore (non a caso Coupland permette traduzioni estere solo nel periodo successivo alla crisi del 2008); a livello di trama o di personaggi non ci tiene ad arrivare da un punto A a un punto B né a far compiere al suo protagonista chissà che percorso di crescita e riscatto: il libro è prima di tutto lo sfogo rabbioso, cinico e amarissimo di una generazione "perduta", il riflesso di quella crisi identitaria che ha portato il Giappone degli anni '90 a smarrire se stesso e tranciare i legami col passato, a ribellarsi all'autorità, a rifiutare la strada sicura intrapresa da nonni e genitori (complice anche la crisi economica) e a incanalare la rabbia in sette di stampo nichilista e veri e propri atti di terrorismo. Al tempo stesso è anche un libro molto giapponese, nel bene e nel male.
Questo è poco giapponese ma ci stava bene

TRAMA&IMPRESSIONI SPARSE

La storia ruota attorno alle disavventure del giovane Hiro Tanaka, un adolescente giapponese degli anni '90 che vive sulla propria pelle lo scoppio della bolla economica. 
Hiro è un ragazzo figlio del suo tempo.
Smarrito, disilluso, rabbioso, potremmo arrivare a definirlo un fallito.
"Sono nato nel 1975 nella zona nord di Tokyo. Non ho fratelli maschi e ho solo una sorella, mia sorella maggiore Moriko, che è nata nel 1970 ma ha una sensibilità così diversa dalla mia che avrebbe potuto benissimo essere del 1955. [...]
Credo che Moriko sia nata nell'ultima generazione che ha provato il senso del dovere o del rispetto o del sacrificio e tutte quelle storie giapponesi sull'armonia con cui ti lavano il cervello quando rinuncia alla tua vita con una firma alla Toyota. E quelli come me, nati dopo il 1975? Lasciateci perdere. Ci riproduciamo, mangiamo e sempre più spesso uccidiamo. Tutti i legami tra noi e chi ci ha preceduto sono stati troncati. Eppure non siamo una generazione."
Hiro non ha un vero legame con la sorella, che a differenza sua ha seguito con gioia e soddisfazione il percorso di una brava ragazza pre-bolla: da ragazzina ha amato i gruppi musicali gaijin (vezzo ovviamente abbandonato da grande), ha studiato con profitto, ha lavorato finché non si è sposata "bene" con un dentista. Se già prima i rapporti non è che fossero chissà quanto affettuosi ora vede Hiro una volta l'anno e lo stordisce di predicozzi su come stia sprecando la sua vita tra lavori meno che precari e una facoltà universitaria poco prestigiosa e con sbocchi professionali pressoché nulli (gestione alberghiera). 
Men che meno ha un rapporto solido o minimamente affettuoso con i genitori: il padre è un uomo tutto d'un pezzo che si è dedicato anima e corpo al suo lavoro di ingegnere chimico alla Secar, la madre una casalinga sposatasi a un uomo assente e anaffettivo non per amore ma per matrimonio combinato che cerca di riempire le giornate di noia con lo shopping di lusso (ma guai a farglielo presente) e, si scoprirà poi, qualche toyboy straniero. Nei confronti di Hiro c'è un'aria di rassegnazione che li spinge al massimo a qualche predicozzo stanco e poco sentito sul suo futuro.
Immaginare che fuori dalle mura domestiche le cose vadano meglio è utopia con la crisi economica che impedisce di fare progetti solidi a lungo termine, un senso di smarrimento generale acuito dalla proverbiale riservatezza giapponese e questa schiera di gaijin che osano arrivare a frotte (e per motivazioni discutibili) in un paese in cui non si integreranno mai e in cui non saranno mai davvero accettati seminando il caos e convertendo al mormonismo le più fighe della classe.
"Siamo mattoncini personalizzati e deformati e non ci incastriamo su nessuna piattaforma: presi in gruppo non ci possono assemblare per costruire nessun oggetto in particolare. Non proviamo nemmeno nostalgia per il sistema vecchio e puro perché era già scomparso prima che noi arrivassimo. E la nostra mancanza di utilità sociale fa sì che vogliamo bandire il vecchio ordine proprio perché per noi non c'è modo di rientrarci, né ora né mai."
Di pagina in pagina, mentre la vita di Hiro scorre senza un progetto, con tanta rabbia e invidia verso chi riesce comunque ad annaspare meglio di lui in questo immenso mare di pupù nascoste da una maschera di cinismo e con l'unica valvola di sfogo rappresentata dal buttarsi di peso contro le vetrine dei negozi, vedremo che il problema non è di Hiro bensì generazionale.
● Tetsu sarebbe il miglior amico di Hiro dai tempi della scuola, i due arriveranno a condividere l'appartamento durante gli anni dell'università e ad andare a cercare la sorella Naomi (vittima dell'attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995 durante il quale ha perso un polmone e che odia con fervore il paese che le ha fottuto la vita in più modi) che ha deciso di fuggire in Canada, ma non vedremo mai quel cameratismo al testosterone e tutta quella bro-complicità tipica degli shonen (allo stesso modo in cui gli interessi amorosi del nostro protagonista non saranno fanciulle ingenue dai grandi occhioni brillanti ma persone forti e pratiche che hanno dovuto mettersi in discussione e crescere molto in fretta). 
Su carta sarebbe anche anche il classico piacione perfetto che andrebbe a fare da protagonista in qualsiasi manga, bello-bravo-affascinante-simpatico Ⓒ sicuro di sé, ammesso a una facoltà seria e di pregio (economia alla Todai) e destinato a un futuro radioso. Eppure condivide lo stesso malessere di Hiro sprecando la sua vita lavorando nel bar di un parente (o mollando tutto per andare in cerca di una sorella che non vuole essere trovata e che ha più senno di tutti gli altri personaggi del libro messi insieme) invece di fare progetti concreti per il futuro. Ma di nuovo, chi si può permettere di fare progetti concreti nel Giappone della bolla?
E anche chi se lo può permettere, ne vede lo scopo?
● Kimiko, la ragazza più bella della classe (che sempre su carta avrebbe dovuto avere una vita divertente, scatenata, piena di amici e flirt), si convertirà al mormonismo all'arrivo di un affascinante missionario gaijin di nome Scott, rimarrà incinta del suddetto e lo seguirà in Canada lasciandosi tutto alle spalle senza particolari rimpianti: perché nel Giappone della bolla si trova rifugio in qualsiasi cosa riesca a dare un po' di conforto e a riempire un vuoto ideologico totalizzante, dalla religione allo shopping, e la propria identità culturale conta meno di zero, specie se è un'identità culturale che prevedete tante (troppe) ragazzine molestate dai genitori.
● Nemmeno se si è fatto tutto per bene e si è seguita la strada prefissata avendo schivato per un soffio quella generazione perduta cui appartengono Hiro e i suoi amici ci si può dire al sicuro: Moriko, non riuscendo a dare un erede al marito, vedrà il suo ruolo di madre e moglie giapponese messo in discussione (e sarà vessata e sminuita dai parenti del marito esattamente come accadeva a sua madre, e nonostante questo ha desiderato ardentemente seguirne le orme), e proprio i genitori di Hiro, quelli che a inizio romanzo sembravano i più inquadrati e meglio inseriti nel sistema, si riveleranno i meno preparati a gestire questo crollo ideologico oltre che economico.
"I miei genitori non sono mai stati liberi. Non ne hanno mai avuto la possibilità. Le loro vite erano già tracciate ancora prima che nascessero. E' così triste."
"E la tua vita? Anche quella era già tracciata?"
"Se devo essere sincera, sì. Volevo le stesse cose di papà e mamma. Davvero. Vorrei che non fosse così ma ormai è troppo tardi. L'unica attività che mi dà piacere è comprare vestiti firmati; è una cosa perversa, vero? E comincio a sospettare che anche quel piacere sia ormai perduto. E quindi adesso sono rimasta solo io, con la mia televisione, le mie rughe e la tomba."
Tutti sono schiacciati dallo stesso sistema in declino, incapaci di prevedere ciò che sarà, e ognuno reagisce a modo suo cercando di restare a galla più che può. C'è chi lo fa con la fede, chi scappa da un isolamento culturale (che si fa particolarmente opprimente in tempi di crisi) o da situazioni di abuso, chi scappa e basta, chi si getta a capofitto nel lavoro (che nel caso della ex compagna di classe Rieko diventa praticamente una fede). 
Hiro sbatte contro le vetrine dei negozi; confida i suoi pensieri a un ipotetico clone del futuro (non riesce a concepire neanche nella fantasia una persona altra a cui confidare ciò che prova nell'intimo), sotto forma di diario che fa anche da manuale di istruzioni (avvisando il suo futuro clone delle sostanze a cui è allergico o alle situazioni imbarazzanti che si ritroverà ad affrontare); si concentra sulle priorità adolescenziali come folleggiare e fare sesso, e se per fare sesso deve sputtanarsi lo scarno stipendio del suo impiego precario nel settore della telefonia in abiti alla moda (che basta siano alla moda e non che gli stiano effettivamente bene, un riflesso di un vuoto culturale generalizzato) allora che sia; soprattutto non pensa mai al futuro nel timore che un futuro non esista.
"Ma perché, se il Giappone è così povero, non lo dimostra affatto?"
"Il materialismo ha fatto il suo corso."
"E che vuol dire?"
"Quello che ho detto. Il Giappone ha attraversato tutto lo spettro del capitalismo. Abbiamo spinto il concetto di shopping più in là di qualsiasi altra cultura conosciuta sulla Terra. Non si può prevedere quello che ci succederà dopo. Non ci sono miti o esperienze storiche a guidaci. Siamo in una situazione davvero nuova. La storia, per quanto riguarda il Giappone, è morta."
*

IN CONCLUSIONE. . .

Dio odia il Giappone è un manifesto postmoderno dalla spiccata impronta pop: ha disegni buffi e fumettosi, un piglio g-g-giovane e schietto ma disilluso, un tono profondamente tragicomico scandito dalle figure di merda collezionate dal protagonista come carte Pokèmon, ma è anche un libro che va a sgretolare impietosamente quella maschera di efficienza impeccabile e self control che il Giappone vuole dare di sé, specialmente ai gaijin.
Eppure Coupland, attraverso Hiro, riesce a non essere completamente cinico e disilluso, cosa che non rende il libro una di quelle incudini postmoderne appese allo scroto che come un membro politico dell'opposizione si limita a descrivere tutto quello che fa schifo nei nostri caotici, vuoti e angoscianti tempi moderni senza portare delle soluzioni concrete o perlomeno un barlume di luce in fondo al tunnel. Se il Giappone così com'era è morto nonostante ci si tenti di convincere del contrario non significa che, come una fenice, i giapponesi non possano rinascere dalle sue ceneri. E sarà la generazione dimenticata, i falliti come Hiro smarriti tra il bisogno di tornare ad essere parte di qualcosa e un rifiuto rabbioso nei confronti di un passato avvertito come opprimente, i primi ad essere davvero liberi. Loro rappresenteranno, forse, un punto di svolta o la salvezza in senso post-materialista. 
Se smetteranno di fuggire e sapranno fare tesoro di questa libertà.
"Per il momento non faccio molti progressi, ma ci vuole un sacco di tempo per imparare a rifiutare le cose che ti hanno insegnato a venerare. Ci vuole coraggio per dire di no, a costo di contrastare gli standard consolidati. Sono pur sempre il figlio dei miei genitori, ma in senso buono, non in quello sbagliato."
Un libro molto breve e un po' sopra le righe che risulta godibile, strappa qualche risata (amara) occasionale ma al tempo stesso riesce a non essere superficiale e irritante. Poi, non è sto dono del cielo alla letteratura, non è il libro della vita, e non è che in Giappone prima di Coupland se ne stessero tutti a negare l'ovvio e a farsi le pippe sovraniste su quanto i giapponesi stiano bene e se proprio c'è un problemino sono tutti pronti a trionfare a dispetto delle avversità a differenza dei pavidi diavoli occidentali.
Che stiano di merda lo sanno pure loro.
Che si sia tutti alienati, confusi, incapaci di comunicare non è un segreto.
Ma è una cosa diversa e interessante che a questo giro il punto di vista ce lo fornisca un gaijin come Coupland, un autore dal piglio fortemente postmoderno che si è davvero immerso nella cultura giapponese, e che quindi i suoi polletti nipponici li conosce ma soprattutto li dipinge in maniera sì poco patinata ma sempre rispettosa. Interessante è soprattutto la parte in cui si parla dei Giapponesi all'estero, quelli che per evadere dalla giapponesità opprimente nel loro paese vanno a in Canada con la scusa di imparare l'inglese: qui per via del cambio del dollaro favorevole questi giovani perditempo fanno la vita di O.C con la paghetta settimanale e nonostante, come Hiro, si sentano schiacciati da un sistema che sta implodendo e dalla perdita di valori e ideologie, finiscono con l'essere più nipponici che mai proprio nel momento in cui potrebbero essere davvero liberi.
E poi c'è chi cerca di liberarsi davvero.
Come Naomi, come Kimiko. Forse come Hiro, se si impegna.

Insomma, a meno di non essere di quelli che vedono il Giappone come la terra dei sogni e il luogo più magico della terra stile Disneyland e non ammettono che le loro fantasie vengano infrante dalla deprimente realtà, una letta gliela si dovrebbe dare.
Giudizio finale:

Nessun commento:

Posta un commento

La tua opinione è importante anche se non sei d'accordo con quello che ho scritto e mi fa sempre piacere scambiare due parole con chi si prende la briga di leggere quello che scrivo.