Autore: Fiona Sampson
Genere: Biografia, Letteratura inglese
Traduzione: E. Gallitelli
Edizione: UTET (De Agostini)
Pagine: 436
Anno: 2018
Euro: 25,00 | Ebook: 9,99
Fiona Sampson non è esattamente l'ultima delle scappate di casa. Scrittrice e poetessa inglese molto apprezzata oltralpe, è tra le autrici più importanti del nostro tempo ed è stata una delle prime figure intellettuali a sostenere con forza l'uso della scrittura creativa all'interno dei programmi di healthcare nazionale.
Tradotta in 37 lingue, colleziona come figurine premi letterari nazionali e internazionali sia per l'impegno nella ricerca che per il suo lavoro letterario.
Ovviamente la wikipedia italiana non le dedica nemmeno due righe e dei 29 libri che ha dato alle stampe in 20 anni ci si è presi la briga di tradurre solo questo, e giusto perché nemmeno la Shelley è proprio l'ultima delle stronze.
Ma avanti così, editoria italiana...
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A 200 anni dalla pubblicazione della prima edizione del Frankenstein, la Sampson dedica alla sua geniale autrice un omaggio biografico che svela le luci e le ombre, ma soprattutto le fragilità umane di una scrittrice che troppo spesso viene sminuita dal punto di vista professionale e relegata al ruolo di moglie e custode della memoria di Percy Bysshe Shelley o al contrario messa su un piedistallo come una figura algida, lontana, smarrita nei meandri del tempo e da adorare in maniera vuota e reverenziale.
La Sampson invece ce ne dona un ritratto umanissimo e commovente. Perché se la storia è piena di figure di donne geniali messe in ombra dalla famiglia, dai mariti, dagli amici, dal periodo e dal luogo in cui si ritrovano a vivere o dal loro stesso lavoro, si può dire che Mary nel corso della sua vita abbia avuto la sfortuna si ritrovarsi contro tutti questi elementi.
Mary è figlia di Mary Wollstonecraft, filosofa antesignana del femminismo liberale, la quale muore per complicazioni dovute al parto poco dopo la sua nascita, e William Godwin, filosofo e scrittore considerato uno dei primissimi teorici dell'anarchismo. E' Godwin a crescere con un coinvolgimento insolito per l'epoca la figliastra Fanny (nata da una precedente relazione della Wollstonecraft) e Mary, la cui educazione e viva intelligenza si sviluppano con straordinaria precocità in casa, al n. 29 del Polygon, all'interno di un salotto frequentato dai più fini intellettuali del tempo.
Questo per 4 anni, finché suo padre non convola in seconde nozze con la dirimpettaia Mary Jane Clairmont (anche lei un personaggio dai costumi piuttosto libertini per i canoni dell'epoca), che nella più fiabesca delle tradizioni si rivelerà essere una matrigna fredda e piuttosto insofferente nei confronti delle figlie di primo letto del consorte. A questo proposito però la Sampton, pur riconoscendo alla seconda signora Godwin una certa dose di furbizia femminile, in qualche occasione sembra insinuare nella mente del lettore il dubbio che sia piuttosto Mary a proiettare sulla matrigna il fastidio e la tristezza che le provocano l'improvvisa indifferenza paterna. Ma le lettere e i diari di Mary parlano chiaro e, da brava biografa, la Sampson vi si attiene senza partire (troppo) per la tangente.
Ma la nota riservatezza della Shelley sulla sua vita privata e la scarna corrispondenza può indurre a fare ipotesi sul fatto che non tutto sia come appare a un primo sguardo.
Non stupisce che una ragazza giovane e intelligente lasciata a se stessa e allontanata per lunghi periodi in Scozia per "irrobustirne il fisico e il carattere", specie se figlia di genitori che hanno dato il buon esempio seguendo un ideale romantico che lasciava poco spazio alle convenzioni sociali borghesi, a soli 16 anni prenda e organizzi una fuga d'amore con il giovane Percy Bysshe Shelley, assiduo frequentatore dei salotti intellettuali paterni, più grande di lei di 5 anni e tra l'altro noto viveur già sposato con una figlia.
Shelley sarà il grande amore della sua vita.
Di contro, lui la tratterà praticamente da subito come un'incudine appesa ai coglioni, ma questo non stupisce: come accade un po' a tutte le donne di rara intelligenza e cultura, Mary latita sul fronte del senso comune e fa schifo a valutare le persone. La Sampson ovviamente non cede alla tentazione di trasformare il volume in un attacco incondizionato a Percy Shelley, che sia uno stronzo è una mia conclusione personale.
Senza nulla togliere all'artista.
Il viaggio dei due giovani innamorati da Dover a Calais è breve, forse nemmeno consumato, ma tanto basta a rovinare la reputazione "onesta e immacolata" di Mary e delle altre figlie di Godwin, Fanny e Jane, la figlia di primo letto della Clairmont. Non saremo ancora immersi fino alla gola nella rigida ipocrisia moralista dell'epoca vittoriana, ma in soldoni per una giovane dell'epoca priva di grandi doti o titoli e amicizie influenti cambia poco: le Godwin non sono più "materiale da matrimonio".
Per tutta la vita di Mary la sua situazione sociale e sentimentale non migliorerà mai davvero dal momento che prima del matrimonio i due vivranno un lungo periodo di convivenza a tre, con la sorella Jane (che ora si fa chiamare Claire) a fare da "piacevole distrazione" a Percy nei momenti in cui la compagna incinta rompe troppo i coglioni e impedendo ai due di avere anche la minima possibilità di costruire qualcosa di solido (se non altro a livello intellettuale). Persino quando convoleranno a nozze la sua vita matrimoniale sarà costellata di continui tradimenti e lutti (non solo quattro dei cinque figli che avrà da Shelley ma anche la sorella Fanny, morta suicida nel 1816).
Mary sembra la classica donna che ama troppo:
"L'amore di Shelley è talmente libero che di fatto imprigiona la sua compagna, perché è totalmente condizionato. Eppure Mary, cresciuta alla scuola di approvazione condizionata del padre, interiorizza questo modo di fare e vi obbedisce."
La Sampson ci svela una donna dall'indole malinconica (troppo persino per i canoni romantici, al punto da risultare una compagnia che ispira mediamente poca simpatia), spesso incline alla depressione.
A contribuire a buona parte delle sue sfortune (anche dopo che Shelley trova la morte in un tragico incidente in mare) c'è un carattere poco socievole e molto riflessivo che non aiuta ad accattivarsi le simpatie del prossimo nemmeno quando è priva del sostegno del marito prima, dell'amico di vecchia data Byron e del padre poi, ovvero nel momento di massima vulnerabilità. Mai l'anima della festa, mai ad imporsi nella conversazione, sempre a subire il giro di amicizie e i desideri degli uomini della sua vita e con sporadiche amicizie femminili coltivate rigorosamente una alla volta (abitudine che fa ipotizzare alla Sampson che la Shelley potrebbe avere tendenze saffiche, o perlomeno bisessuali). Rimasta sola con l'unico figlio sopravvissuto, Percy Florence Shelley, si ritroverà in balia di sguardi ostili e vittima delle maldicenze diffuse dalla sorella, dalle amanti del marito e dallo stesso Shelley, che a più riprese nel corso del loro matrimonio si lamenterà di lei con gli amici per la sua freddezza.
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La Sampson scandisce questo incredibile resoconto della vita di Mary Shelley per immagini, come se il libro si costruisse su una serie di dipinti: piedi di vita e luce i primi (le grandi finestre di Skinner street, un vestitino di tartan acquistato in Scozia, i libri di filastrocche che deve aver presumibilmente sfogliato da bambina), malinconici, fumosi e cupi man mano che s'avanza.
Giochi infantili, sogni e vestiti acquistati d'impulso lasciano spazio a una notte tempestosa a Villa Diodati, il luogo in cui quasi per gioco e un po' per noia si diede vita a due dei lavori più importanti dell'Ottocento, Il Vampiro di Polidori e ovviamente Frankenstein; all'articolo di giornale che riporta la morte della povera Fanny (che si impicca nella solitudine della sua stanza a differenza di Harriet, la prima moglie di Shelley, che si getterà nel Tamigi causando grande scandalo); un ritratto malinconico in cui sfoggia un sorriso triste e appena accennato che la ritrae nella piena maturità. Tutto va ad arricchire il ritratto della scrittrice e della donna, che a più riprese si confondono.
"Sono stata cresciuta ed educata alla sete di gloria. Diventare una persona grande e buona, questo era il precetto di mio padre, e Shelley l'ha ribadito. Ma Shelley è morto e io sono rimasta sola. Mio padre, per l'età e le circostanze domestiche, non è riuscito a "me fair valoir". La mia totale assenza di amicizie, il mio orrore per l'insistenza e l'incapacità di propormi senza qualcuno che mi guidi, mi apprezzi e mi sostenga - tutto questo mi ha affondata."
Mary troverà sempre difficile, ma a maggior ragione quando l'Inghilterra entrerà ufficialmente nell'epoca vittoriana e diventerà ancora più duro per un'autrice affermarsi professionalmente, nascondersi dietro l'anonimato o a pseudonimi maschili.
Se poi per scrittrici come Jane Austen è stato comunque relativamente semplice proporre al mondo i suoi romanzi firmandosi pudicamente come "a lady", diventa quasi impossibile per la Shelley farsi prendere sul serio dai contemporanei quando la sua ambizione è scrivere senza nascondersi opere filosofiche, biografie e trattati in cui la condizione imprescindibile è argomentare su prove certe ed essere autorevole.
Non vuol dire che non ci provi, e che non riesca a costruirsi a fatica uno spazio all'interno di quella sagra della salsiccia che è il modo intellettuale "serio". Ma forse ci si mette la vita, forse l'età, forse la malattia, forse ha semplicemente deciso così: se dopo il 1838 smette con la narrativa dal 1844 la sua incredibile vena creativa si esaurisce del tutto.
Il racconto della sua vita si chiude con l'immagine del sepolcro di Mary a Bournemouth, oggi chiuso da un sistema di superstrade e sovrastato da un centro commerciale e da un pub che porta il suo nome. Se l'immagine può apparire irrispettosa, è possibile che la Shelley avrebbe apprezzato l'ironia.
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Fiona Sampton ci regala una biografia a tutto tondo corredata di fotografie, incisioni e ritratti che è al tempo stesso un lavoro di ricerca mastodontico sulla donna Mary Shelley, sul background storico, filosofico e politico in cui si muove e un'acuta analisi del suo lavoro che mira non a riportare un compitino sterile in previsione del bicentenario del Frankenstein, ma a far emergere tutta la potenza di una figura straordinaria che per sopravvivere e farsi spazio all'interno di un mondo (familiare e intellettuale) che non la voleva in quanto donna si è inventata e reinventata all'infinito.
Un'intellettuale di rara intelligenza e sensibilità che si rivela anche molto umana e fragile, incapace di restituire fino alla fine gli infiniti colpi che le ha riservato il destino. Arriverà a rinunciare alla grandezza letteraria relegando se stessa al ruolo ancellare di custode della memoria del marito perché il figlio non dovesse soffrire del biasimo sociale dei suoi contemporanei come era accaduto a lei e alle sue sorelle.
Questo libro parla di come Mary è diventata chi è e di quanto di sé a livello intimo e personale abbia impresso nel suo mostro, ma è anche un'acuta riflessione sul contemporaneo, su quanto oggi come allora alle donne di talento venga richiesto di sacrificare in virtù del proprio sesso.
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