Autore: Herman Koch
Traduzione: S. Musili
Edizione: Neri PozzaTraduzione: S. Musili
Pagine: 126
Anno: 2019
Euro: 15,00 | Ebook: 9,99
La prima riflessione che mi viene da fare davanti a questo libro dell'olandese Herman Koch (autore più conosciuto a livello internazionale grazie al suo sesto romanzo, La cena) è che non mi stupisco nemmeno più del fatto che ormai certe case editrici arrivino a far pagare senza vergognarsi 15 euro per un libricino di nemmeno 150 pagine (10 euro se uno vuole "vivere l'esperienza del digitale"), tanto di scusa ne hanno sempre una e noi non possiamo capire perché non lavoriamo nel settore.
Mi limito a prenderne atto con fastidio.
La seconda riflessione riguarda sempre la scarsità di pagine del libro, che risulta sì molto breve ma che io personalmente ho impiegato parecchi giorni a finire, per via della sua pesantezza di fondo: pesantezza dovuta sia alla sua impostazione (il libro è un muro di parole respingente, che ben riflette il disordinato flusso di coscienza del suo protagonista) che alle tematiche. Quindi non ci si lasci ingannare dal fatto di essere così piccino, di cose da dire ne ha, anche se forse non sono le cose che vorremmo sentirci dire.
Noto infatti in generale tra gli autori nordici un certo gusto per il nichilismo livoroso, che qui si trasforma in un vero e proprio manifesto di decostruzione (anzi, proprio di distruzione) dell'ipocrisia perbenista alto borghese in cui non si salva veramente nulla.
La trama è più un lungo sfogo.
La voce narrante è un adolescente di Amsterdam che frequenta un istituto ispirato, almeno a parole, ai principi di un'italiana, tal "Maria Montanelli" (Il riferimento alla nostrana Montessori è evidente ma Koch forse vuole evitare beghe legali, e non ha tutti i torti a volersi pararsi il sedere visto come ne esce questo istituto): ma mentre la fondatrice, come ci dirà lo stesso protagonista, operava nei quartieri poveri del napoletano con lo scopo di creare un metodo educativo che potesse essere d'aiuto alle classi indigenti, per qualche motivo col trascorrere del tempo si è trasformato in qualcosa di elitario e di gran moda, mirato alle classi benestanti, nello specifico ai figli di artisti e membri dello show business.
Il protagonista fa parte di questa cricca di privilegiati.
Vive in un quartiere di artisti, respira aria alto borghese e quindi frequentare l'istituto Montanelli (che guida questi giovani rampolli per tutto il ciclo scolastico, dalla scuola primaria al liceo) è praticamente un obbligo da cui non ci si può esimere, nonostante il nostro protagonista non solo lì non ci voglia stare e non manchi mai di dimostrarlo ma probabilmente a giudicare dal numero di schede negative che gli appioppano manco ce lo vogliono i professori.
E' il classico clown della scuola ribellino (una sorta di maschera che indossa per far parte del gruppo e integrarsi) e insofferente alle (poche) regole di una scuola che fa della crescita autonoma e della responsabilizzazione personale il suo cardine, ma che poi in pratica si rivela, almeno attraverso gli occhi di questo ragazzo, lo stesso crogiolo di snobismo ipocrita, competizione e frustrazione che vede negli occhi degli adulti che lo circondano. Insomma, un istituto che ha completamente snaturato le intenzioni iniziali della fondatrice, e che a conti fatti è ben lungi dall'essere il luogo protetto e sicuro per ragazzi sensibili e danarosi per cui vorrebbe spacciarsi, ma che difenderà con le unghie e con i denti questa immagine patinata qualsiasi cosa accada.
Sarà l'arrivo di un ragazzo affetto da ritardo mentale proveniente da una famiglia normale (quindi del tutto fuori posto nel contesto della Montanelli su più livelli) a svelare questa ipocrisia: il fatto che a causa del suo handicap sia trattato in modo più condiscendente da tutti scatenerà infatti le antipatie e la rabbia non solo del protagonista ma di tutti i suoi compagni.
E a questo punto ci dobbiamo ricordare che siamo al Montanelli.
Un istituto in cui non ci sono voti, compiti a casa e ognuno si gestisce come vuole.
Quindi la bestialità prevaricatrice di questa mansnada di privilegiati del cazzo contro il diverso spicca ancora di più, specie messa in contrasto con l'altro lato della medaglia, quell'ossequiosità ed eccessiva condiscendenza rivolte a un ragazzo che proprio in quanto diverso viene percepito solo come un qualcosa di inferiore da compatire e proteggere, cosa che sfocia in un fastidioso paternalismo (atteggiamento che a detta del protagonista spinge il ragazzo "ritardato" - così lo chiama lui - ad approfittarsene).
Ma il libro non vuole concentrarsi sul nuovo arrivo né sulla questione della diversità o del fatto che i ricchi lo odino o lo mettano sul piedistallo della puccioseria: Jan Wildschut resta una figura marginale come tutte quelle che gravitano attorno alla vita di un protagonista che non sa che direzione dare alla propria vita e non sa trovare nulla che lo renda felice nella sua esistenza (a parte la tresca clandestina con una coetanea, i cui genitori non gradiscono che lei frequenti ragazzi, ma è più il brivido del proibito che l'amore), e non ha nulla a cui aggrapparsi.
Non la famiglia, con una madre che si ammala e poi muore di cancro e un padre totalmente disinteressato ai due che coltiva da anni una relazione con una ricca vedova del quartiere. Non i professori, che proprio a causa del metodo lasso della Montanelli non riesce a percepire come figure di autorità o da rispettare. Non i coetanei, con cui recita la parte del simpatico solo per svelare le altrui debolezze. Persino del suo migliore amico Erik sappiamo pochino. E' più la sua famiglia ad interessarlo, perché rappresentano per lui un porto sicuro in cui rifugiarsi quando la vista della madre malata lo ripugna troppo o quando il desiderio di allontanarsi da quel padre che non lo ama si fa impellente.
*
In pratica il protagonista di questo libro è il classico ricco annoiato a cui non va bene niente, tutto fa schifo, però gli fanno comodo i soldi da sputtanarsi in stravizi che il suo patetico padre gli lascia sul comodino. A cui la scuola Montanelli sta stretta ma non manifesta mai con nessuno il desiderio di andarsene e frequentare un'altra scuola o mettersi a lavorare.
Subisce qualsiasi cosa ma fa il filosofo tormentato coi problemi, povero ragazzo ricco che vive il dramma di una madre morta di cancro. L'hai subito solo te al mondo questo dolore, gli altri tutti coglioni. Ma vaffanculo.
A me queste decostruzioni all'insegna del cinismo e della mestizia per quanto ben scritte (perché non si può tacciare il libro di non essere ben scritto e di non rendere bene i deliri di un adolescente tormentato) piacciono fino a un certo punto. Inutile che mi punti il dito contro la realtà ipocrita e schifosa (e se poi la voce narrante è il figlio di gente coi soldi al massimo mi scappa da ridere, dove l'hai visto lo schifo che sei parte integrante di quel marasma di sfigati che giudichi dall'alto in basso per tutto il tempo?) se poi sei il primo a rassegnarti e a non fare assolutamente nulla per metterci una pezza.
Anche fallendo miseramente, eh, ma almeno provarci ad agire.
E' un po' un leit motiv della letteratura nordica, questo prendere atto della realtà che fa schifo, questo dare ginocchiate ai testicoli del perbenismo borghese ma poi piantarla lì perché oh, io sono intelligente e te l'ho fatto notare, che altro vuoi da me? Pare padre Maronno che indica le grandi verità dell'esistenza.
Insomma, La scuola è un libro che sì, ti butta davanti l'ovvio con una cattiveria senza filtri, ti fa vedere che il buonismo a tutti i costi fa danni come il suo opposto, che i borghesi sono falZi, ma poi non sa che minchia farci. O almeno, io non so che minchia farci con questa consapevolezza, proprio come il protagonista del racconto.
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