sabato 31 dicembre 2022

[Recensione] IL QUINTO FIGLIO, di Doris Lessing

Titolo originale:
 The fifth Child
Autore: Doris Lessing 
Traduzione: M. Castagnone
Edizione: NUniversale Economica Feltrinelli
Pagine: 168
Anno: 1988
Euro: 9,00

Doris Lessing nasce nel 1919 da un reduce della prima guerra mondiale (trasferitosi poi in Persia, l'attuale iran, nel ruolo di impiegato di banca) e da un'infermiera che covava nel cuore il sogno romantico tipicamente vittoriano delle "terre selvagge".
Proprio questo desiderio spinge la famiglia a trasferirsi nella Rhodesia del Sud (attuale Zimbabwe) per dedicarsi alla coltivazione del mais. Il progetto però non va a buon fine: i mille acri di bush africano non produrranno abbastanza per far vivere loro il sogno coloniale.
Doris Lessing frequenta una scuola cattolica (sebbene la famiglia non lo fosse), abbandonata a 15 anni anche come atto di ribellione alla severità materna per dedicarsi allo studio da autodidatta, cosa che la rende una figura atipica (insieme alle sue radici coloniali e alle simpatie di sinistra) nel panorama letterario del Novecento.
In seguito si trasferisce a Londra, dove inizia la sua prolifica carriera artistica che spazia dal realismo alla fantascienza passando per il sufismo: curiosamente, dal momento che l'autrice non si è mai etichettata come tale e ha sempre rifuggito l'idea con veemenza, viene dai più considerata una delle più importanti rappresentanti della letteratura femminista.

DUE RIGHE DI TRAMA

Il quinto figlio è un breve romanzo dai tratti scarni e impietosi che narra di un piccolo sogno familiare che si tramuta in un incubo sotto gli occhi impotenti degli attori in gioco: Harriet e David, spiriti affini dall'animo tradizionale che sognano una famiglia felice e numerosa ("almeno sei figli", dichiarano al primo appuntamento, e visto che l'altro non scappa in preda al panico capiscono che è la persona giusta), si incontrano per caso a una festa aziendale ed è subito fiori d'arancio.
I due si sposano e sembrano animati da una frenesia di felicità inestinguibile che li porta a bruciare le tappe nel segno di quella che chiunque li circondi (nonché chi legge) bolla come incoscienza.
Nonostante non possano permetterselo con i loro stipendi i due comprano un'enorme villa vittoriana su tre piani in un paesello sfigato abbastanza servito dai mezzi, perché di case a Londra abbastanza grandi per contenere la conigliata di figli che hanno in mente non ce ne sono, e poi il loro sogno familiare deve svolgersi necessariamente in campagna, tra i fiori e i fantasmi di Jane Austen.
Nonostante abbiano un mutuo trentennale abbastanza importante sulle spalle (strano visto che sono diventati i padroni di Downton Abbey) e siano ancora molto giovani decidono di mettere al bando qualsiasi metodo contraccettivo dalla loro alcova d'amore e di dare subito forma al loro nido sfornando uno dietro l'altro 4 figli splendidi, belli come il sole e amabili. Attorno a questo tranquillo quadro di felicità e armonia ad ogni festività comandata si raccoglie, come gente smarrita nel deserto attorno a un'oasi, una seconda conigliata di parenti che cercano da Harriet e David quella serenità che manca nel mondo "reale", anche se al tempo stesso non si lesinano le critiche verso scelte percepite come incoscienti.
"Forse, ma dico forse, hai un po' sbagliato a comprare Pemberley e a scodellare 4 figli prima dei trent'anni senza poter mantenere questo stile di vita visto che ora lavora solo tuo marito, non sei mica un Labrador"
"Forse invece l'intera società è sbagliata e tutti farebbero come noi se i poteri forti non ci condizionassero a pensare a cose aride come i soldi che servono a mantenerli e al tempo da dedicare loro come individui." replica Harriet.
Scacco matto, coppie monofiglio.

Questo quadretto idilliaco va però a infrangersi contro lo scoglio della quinta gravidanza di Harriet, che avviene proprio nel momento in cui la donna avrebbe voluto fare effettivamente una pausa.
La gravidanza si rivela da subito diversa dalle altre: un attimo Harriet è incupita e immalinconita, quello dopo è furiosa e atterrita; avverte dentro di sé una creatura aliena, forte e violenta, che cresce in modo anomalo e la aggredisce dall'interno con calci e pugni animaleschi fin dal secondo mese. Per tutta risposta la famiglia le fa terra bruciata intorno (a.k.a le lascia il suo spazio) e persino David le appare più distante. In fondo quella casa si frequenta perché è un'oasi di pace e serenità, le lacrime e la rabbia non sono nei patti, quelle in fondo possono trovarle pure a Londra.

All'arrivo del nuovo nato, che Harriet decide di chiamare Ben, le cose non migliorano né per lei né per tutti gli altri membri della famiglia. 
Il bambino è strano e brutto, descritto dalla stessa Harriet come bestiale, anormale e violento, affetto da chissà che ritardo cognitivo o, addirittura, proveniente da chissà che epoca primitiva o mondo alieno ostile, cosa che a un certo punto porterà la donna non solo a temere ed evitare con un piglio alla Victor Frankenstein questa sua progenie mostruosa ma a invidiare addirittura la sorella, che ha dato alla luce Amy, una bambina con la sindrome di Down e che fino alla nascita di Ben compativa poco velatamente.
Nulla di nuovo sotto al sole borghese.

La nascita di Ben corrisponde alla disgregazione del sogno romantico borghese di Harriet e David: i due vengono messi di fronte all'incoscienza della loro scelta e alla loro assoluta inadeguatezza come genitori, totalmente incapaci come sono sia di gestire una creatura atipica come Ben che di occuparsi del benessere e della serenità degli altri 4 figli, che uno dopo l'altro abbandoneranno il nido familiare per rifugiarsi altrove.
E a quel punto persino la casa dei sogni diventa una prigione, un luogo da cui stare lontani più che si può, un peso di cui non ci si può liberare: proprio come Ben.

IMPRESSIONI SPARSE

Il quinto figlio è un breve romanzo che svela in maniera cruda le ipocrisie e l'egoismo della classe media borghese: per Harriet e David avere la famiglia numerosa e la villa di campagna è bellissimo, ma solo finché il papà ricco di David paga i conti del mutuo e delle scuole private dei figli e la mamma vedova di Harriet fa da governante.
Un benessere effimero, insomma, sostenuto da altri.
Il loro nido utopistico funziona solo finché qualcosa non va storto, che sia Ben con le sue mostruose stranezze e le sue tendenze violente o il loro quartogenito, che la presenza del fratello minore rende infelice, apatico e isterico (un figlio che Harriet arriva a concepire come l'ennesimo fardello fastidioso, da smollare alla prima occasione alla famiglia dello psichiatra che lo prenderà in cura - sempre, s'intende, coi soldi del suocero). Di Paul non sapremo nulla della sua vita al di fuori delle mura domestiche.
Ad Harriet, la nostra voce narrante a questo punto talmente assorbita da Ben da lasciar crollare tutto il resto attorno a sé, non sembra nemmeno interessare.

I parenti che ogni anno affollavano la casa di Harriet e David quando tutti si divertivano sono i più lesti a tagliare la corda quando i problemi della vita reale vanno a colpire anche quel nido di pace. La soluzione più facile e comoda sembra essere sempre la preferibile.
Allontanarsi dai problemi ma anche liberarsi del diverso.
Di comune accordo, ma coinvolgendo Harriet solo a cose fatte, la famiglia decide di mandare via Ben rinchiudendolo in un istituto per gente come lui: la soluzione borghese per antonomasia, nascondere il motivo di imbarazzo e l'elemento alieno per poi rimenticarlo e tornare alla propria vita di sempre, relegarlo in un posto in cui, se non fosse per l'intervento di Harriet che non riesce a lasciar andare quella sua progenie, per quanto inamabile, morirebbe in poche settimane stordito dai farmaci. Sacrificare il diverso sull'altare della serenità della parte normale della famiglia, insomma: una lezione che hanno imparato persino i bambini, al punto che il ritorno di Ben segna la condanna definitiva di Harriet, che a questa regola si ribella. Ritenuta a questo punto unica colpevole di quella situazione (anche se i germi della condanna si avvertivano fin dalla gravidanza), resterà sola a occuparsi di questa creatura.

Impara Disney: se chiudi un
povero stronzo in camera per 20 anni
non diventa una Moira Orfei
piagnona con lo stacco di coscia
di Jessica Rabbit.
Ben, la figura mostruosa attorno a cui si incentra il raccondo, richiama molto al Mostro della Shelley, ma qui la Lessing non dà risposta alla domanda che sorge spontanea: il mostro è nato così o è stato reso tale sia dalle convenzioni borghesi che identificano la diversità come un pericolo e un fardello di cui liberarsi che dall'ostilità, dalla mancanza d'amore e dall'isolamento a cui l'hanno sottoposto le persone che aveva intorno, a cominciare dalla sua stessa madre, che quella gravidanza nemmeno l'aveva voluta?

E Ben, un mostro, lo è davvero?
Nemmeno a questo il romanzo dà risposta: c'è sicuramente qualcosa che non va dal momento che un ragazzo come gli altri non va in giro ad ammazzare gli animali domestici, ma il punto di vista di Harriet non trova nessuna conferma esterna. Per la preside della scuola e gli specialisti che consulta non è diverso da qualsiasi ragazzo problematico, non ha nulla di primitivo, animalesco o alieno. Ben è semplicemente una presenza straniera che va a disturbare un idillio borghese ancora molto presente nell'Inghilterra di quegli anni, un imbarazzo che Harriet decide di non nascondere, diventando essa stessa una presenza scomoda da allontanare per mantenere la normalità. Madre e figlio diventano quindi due facce speculari della stessa diversità: Ben che nasce con qualcosa fuori posto che incrina la serenità familiare, Harriet che decide di amare qualcosa che non può essere amato condannando la propria famiglia all'infelicità.

Insomma, strigni strigni la solita retorica nauseante della madre coraggio ma con il bambino mostruoso, tra l'altro una figurina irritante e incostante che un secondo prima chiude il figlio a chiave in camera e lo minaccia di riportarlo nell'istituto (perché per calmarlo funziona solo la paura, ci tiene a specificare) e quello dopo proprio non può lasciarlo andare; che un secondo prima gli legge una malvagità d'animo intrinseca e quello dopo dice che sì, lei può cambiarlo con l'amore. 
Le madri salveranno il mondo e blablabla.
Anche se in questo romanzo è tutto talmente asciutto e asettico, causa anche la brevità del testo, che sembra più la curiosità di dipanare un mistero insondabile e il desiderio di trovare qualcuno che confermi le sue teorie paranormali che l'amore materno a smuovere questa donna per buona parte del tempo. A questo punto preferisco Frankenstein che alla vista del suo mostro fugge via in preda all'orrore per non guardarsi più indietro se non una volta messo forzatamente di fronte alle conseguenze della sua tracotanza. Tra l'altro Victor a differenza di Harriet non aveva abbandonato 4 creature belle e paffutelle per star dietro al mostro psicopatico. Che poi è il motivo per cui la gente generalmente 5 figli non li fa, perché o sei Wonder Woman o non può star dietro a tutti e dar loro le attenzioni e l'amore che meriterebbero.

IN CONCLUSIONE. . .

Il quinto figlio è un romanzo troppo breve per colpire duro, nonostante le tematiche che mette sul fuoco non siano nemmeno male. Offre spunti interessanti (anche se stantii sul fronte dell'analisi della figura femminile e della diversità, per ovvi motivi anagrafici) che negli anni '80 devono aver causato un certo turbamento ma non va a fondo quanto mi sarebbe servito per trovarlo più soddisfacente. 
Gli elementi fantascientifici (se possiamo chiamarli così dal momento che tutti i deliri di Harriet non trovano conferme esterne se non nei parenti che potrebbero semplicemente liberarsi di un bambino brutto e disturbato, come si è fatto per buona parte della storia dell'umanità) e quelli realistici stridono tra loro e sembrano buttati lì a caso invece che essere ben amalgamati come in un Rosemary's Baby.

Il personaggio di Harriet è l'unico di cui riusciamo a percepire i pensieri e a parte la noia assoluta delle cose che le passano per la testa è incomprensibile quanto Ben nel suo mix di sacrificio materno, retorica borghese alla "tutti farebbero una conigliata di figli se non fossimo condizionati altrimenti" e cazzate similari. Nella scena in cui riporta a casa Ben con un'incoscienza rara l'avrei presa a calci nel culo e onestamente mi sono sentita più solidale col resto della famiglia: non è possibile che nell'Inghilterra degli anni '60 non esistesse una via di mezzo tra lasciare un povero infelice all'Arkham Asylum e riportare un violento psicopatico in una casa dove ci sono altri 4 bambini, che grazie al cazzo poi decidono di scappare il più lontano possibile. 
Dramatization di tipici studenti
dell'istituto professionale
Non è possibile farle compiere questo gesto di pietà suprema (che si traduce nella rovina per tutto il resto della famiglia) e poi farla diventare la prima che terrà a bada il figlio 
con la paura di riportarlo in quell'inferno e togliendoselo dai piedi per più ore possibili al giorno, arrivando a lasciarlo in balia di giovani sfaccendati motociclisti e gang di delinquenti mezzi disturbati che arrivano dall'istituto professionale (noto covo di punk criminali), con cui Ben finirà a compiere stupri e rapine, nella totale indifferenza di Harriet, che però è brava perché lo ha salvato dall'istituto
Ma vai a cagare.

Il fatto che sia un romanzo molto psicologico e intimista lo rende dal mio punto di vista anche molto noioso dal momento che non succede nulla a parte "Harriet che fa cose che mi fanno girare gli ammennicoli": può essere interessante per chi è intrigato dalle figure materne, ma io che materna non lo sono nemmeno per sbaglio mi sono fatta due palle che non finivano più, anche perché da come me lo avevano descritto mi aspettavo una visione della maternità molto diversa e caustica, una madre che per una volta il frutto dei propri lombi lo rifiutasse e odiasse per davvero. 
Non c'è speranza né redenzione, non c'è condanna se non per un modello di famiglia che ormai è disgregato da almeno mezzo secolo, non c'è risoluzione del mistero legato alla nascita di Ben o una crescita, non ci sono conferme alle teorie strampalate di Harriet; manca un avvenimento risolutivo che metta una parola fine soddisfacente o di contro un qualcosa di vagamente conclusivo che ci faccia capire cosa voglia fare la Lessing a parte decostruire un modello borghese stantio. 

Un libro che a mio avviso non regge alla prova del tempo. Se non altro è breve, ma 'ste 168 pagine mi son sembrate 1000.

Giudizio finale:

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