mercoledì 18 gennaio 2023

[Recensione] PACHINKO - LA MOGLIE COREANA, di Min Jin Lee

Titolo originale:
 Pachinko
Autore: Min Jin Lee 
Traduzione: F. Merani
Edizione: Pickwick
Pagine: 587
Anno: 2017

Premesse:
Prima piacevole scoperta di questo sfigatissimo (dal punto di vista delle letture e delle visioni a schermo) 2023, Pachinko è l'opera seconda della scrittrice e giornalista sudcoreana (naturalizzata US) Min Jin Lee.
Il romanzo, ambientato nel Novecento, va ad abbracciare quasi un secolo di vicende e 4 generazioni di una famiglia coreana costretta ad abbandonare il proprio paese per cercare una vita migliore in Giappone.
Interessante che la Lee, proprio come uno dei personaggi di questo romanzo, dopo aver trascorso quasi tutta la sua vita in America abbia vissuto in Giappone per un breve periodo della sua vita di ragazza occidentalizzata, dal 2007 al 2011, e che quindi probabilmente abbia vissuto sulla propria pelle lo stesso shock culturale provato da Phoebe, quel senso di estraneità avvertito in presenza di altri coreani "giapponesizzati", e che abbia subito sulla propria pelle quel disprezzo e rifiuto nei confronti del diverso (per quanto questo diverso sia "arrivato", economicamente o culturalmente) che rappresenta uno dei temi principali di Pachinko.
Che parla anche di Pachinko, tranquilli.

*

TRAMA

Il Primo Libro abbraccia un periodo che va dal 1910 al 1933.
I primi personaggi che incontriamo sono i nonni di quella che sarà la "moglie coreana" che compare nel titolo nostrano e che sarà la nostra figura femminile di riferimento, anche se non la protagonista come saremmo portati erroneamente a pensare. In questo, plaudo la scelta della nuova edizione economica di tornare al titolo originale Pachinko e di usare il vecchio titolo italiano solo come sottotitolo. Ci si aspettasse un qualcosa alla Memorie di una geisha si resterebbe delusi, insomma.
Nel mio caso tiro un sospiro di sollievo.

Nel piccolo villaggio di pescatori di Yeongdo (a un tiro di traghetto da Busan) una coppia di anziani pescatori decide di arrotondare i magri guadagni convertendo la propria abitazione in locanda, un piccolo rifugio per quegli uomini troppo poveri per sperare di trovare moglie ma che non vogliano rifiutare quel tocco di comodità muliebre: pasti caldi, abiti puliti e rammendati, buona compagnia. I due hanno tre figli maschi ma solo uno, Hoonie, nato con delle vistose malformazioni (un labbro leporino e un piede storpio), arriva all'età adulta.
Per via del suo aspetto trovargli moglie sembra un'impresa disperata ma "per fortuna" nel 1910, quando il nostro Hoonie ha 27 anni, il Giappone annette la Corea e molte famiglie un tempo anche benestanti sono ridotte così alla fame che ora come marito va bene chiunque. 

Parentesina storichina:
The MOAR you know
Il trattato di annessione nippo-coreano (chiamato in Corea "trattato forzato dell'annessione coreana al Giappone") del 1910 venne stipulato tra Corea e Giappone, e prevedeva che l'imperatore della Corea cedesse al Giappone la sovranità sull'intero paese, che dal 1905 era già un protettorato nipponico.
Il valore legale del trattato nel corso della storia venne più volte messo in discussione sia dal governo coreano in esilio che dalle forze alleate che occuparono il Giappone alla fine della II guerra mondiale dal momento che portava sì il sigillo nazionale dell'impero coreano ma non la firma dell'imperatore Sunjong come avrebbe previsto la legge, il quale si rifiutò di sottoscrivere quell'umiliazione, bensì quella del primo ministro Lee Wan-Yong.

La Corea, al tempo paese povero e arretrato, subì uno sviluppo economico frettoloso e male organizzato da parte del Giappone al fine di rientrare nei gravosi costi d'annessione e fare del paese un bacino per materie prime e prodotti agricoli: le terre vennero espropriate ai proprietari (incapaci di pagare le tasse gravose che vengono loro imposte dai nuovi padroni) per garantire una produzione a ciclo annuale, più massiccia ed efficiente, che potesse garantire di sfamare una popolazione interna in rapida crescita e di esportarne l'eccedenza. Venne istituta la banca coloniale di Corea che in quegli anni impose una moneta unica, lo yen coreano, e dagli anni '30 avvennero massicci trasferimenti di zaibatsu (industrie a partecipazione mista) nel territorio al fine di industrializzare il paese e sfruttare masse di disperati come manodopera a basso costo. Alla vigilia della seconda guerra mondiale il 20% della produzione industriale giapponese arrivava dalla Corea.
Le ribellioni interne causate dagli abusi dei dominatori e dal peggioramento delle condizioni di vita causarono come ovvia reazione l'inasprirsi delle repressioni. Come conseguenza negli anni '20 furono molti i Coreani che si trasferirono in Giappone in cerca di una vita migliore: lì furono bersaglio di violente discriminazioni razziali da parte dei nipponici, che ancora oggi non hanno un'opinione molto positiva dei coreani residenti in Giappone, o di chiunque non sia Giapponese che risiede in Giappone se è per quello.
*Fine parentesina storichina*

La famiglia di Hoonie grazie ai proventi della locanda riesce a mantenere un certo grado di morigerato benessere, riuscendo in questo modo a combinare il matrimonio del figlio con Yangjin, una giovane modesta proveniente da una famiglia ridotta sul lastrico e con tre figlie da sistemare, e quindi priva di dote. Pur essendo un matrimonio combinato, tra i due si sviluppa un tenero e sincero sentimento, una placida serenità casalinga coronata qualche anno dopo dalla nascita di una bambina, Sunja. Sunja sarà la gioia e l'orgoglio di suo padre fino alla sua morte, 13 anni più tardi.
Dramatization
Sarà Yangjin a crescere da sola la bambina, che col trascorrere degli anni si fa donna. Una ragazza semplice, lavoratrice, molto devota alla madre e alla memoria dell'amato padre, che attirerà le attenzioni di un uomo molto più grande di lei, Koh Hansu, un ricco commerciante di pesce della zona, di cui col trascorrere dei giorni si innamorerà perdutamente. 
Rimasta incinta dell'uomo farà un'amara scoperta: Koh Hansu non può renderla una donna onesta perché ha già moglie e 3 figlie in Giappone, e di divorziare non se ne parla dal momento che la donna a cui è legato è la figlia del suo capo, colui a cui deve la sua fortuna. Si offre, da galantuomo qual è, di fare di Sunja la sua "moglie coreana": di comprarle un appartamento e di provvedere ad ogni bisogno economico suo e del bambino in arrivo. Sunja, col cuore spezzato, l'onore gettato ai porci e destinata ormai a una vita da donna perduta, non solo rifiuta ma per quanto lo ami ancora con passione tronca all'istante la sua relazione con Koh Hansu.
Il suo destino sarebbe segnato e noi ci ritroveremmo di fronte un mattone alla Lettera Scarlatta - Korea Edition se non facesse la sua comparsa Baek Isak, un giovane e avvenente ministro protestante in viaggio alla volta del Giappone per questioni di lavoro che deve fermarsi alla locanda per più tempo di quanto avesse preventivato a causa di un attacco di tubercolosi, aggravato dalla sua salute cagionevole.
Venuto a conoscenza della situazione, Isak a differenza di quello che ci aspetteremmo da un cristiano non offre preghiere e altre cazzate inutili ma di sposare Sunja e riconoscere come suo il bambino in arrivo (in fondo i suoi insistono da anni perché trovi moglie). I due si sposano senza particolari impedimenti a parte l'atteggiamento sassy di un vecchio prete di merda e partono alla volta del Giappone, a Osaka, dove li aspetta il fratello di Isak, Yoseb, insieme alla moglie di lui Kyunghee.
Ci aspetteremmo a questo punto, noi navigati lettori di drammoni al femminile, rancori e gelosie senza esclusioni di colpi tra la nuova arrivata di bassi natali feconda che subisce le molestie con gioviale buonumore e la nobile e bellissima signora senza figli invece no: come al solito Min Jin Lee non esagera col drama e tra le cognate nasce un'immediata simpatia.

*

Il Secondo Libro abbraccia un periodo che va dal 1939 al 1962.
Sunja, sempre ospite in casa degli amorevoli cognati, cresce insieme al marito che presta servizio nella chiesa vicina per pochi yen al mese i due figli, Noa (il figlio di Hansu) e Mozasu (figlio di Isak). Se Noa fisicamente è il ritratto di Hansu, nel carattere è mite e studioso come Isak.
Mozasu è appena neonato.
Quando Isak viene incarcerato perché considerato un coreano sedizioso (e tutti possono tranquillamente metterci una pietra sopra visto che i coreani vengono trattati a merda da liberi, figurarsi in prigione), nonostante le vive proteste di un uomo vecchio stampo come Yoseb Sunja e Kyunghee sono costrette a lavorare al mercato, dando il via a un piccolo ma abbastanza redditizio smercio di kimchi fatto in casa e, quando mancano le verdure, di caramelle.
All'arrivo della seconda guerra mondiale però le materie prime cominciano a scarseggiare: ci aspetteremmo la carestia a casa Baek, gente che mangia la terra, Mozasu che muore di stenti perché è il più piccolo e sacrificabile del branco, invece Sunja viene contattata da Kim Changho, proprietario di un ristorante della zona, con un'offerta da leccarsi le orecchie. Darà alle due le materie prime di cui hanno bisogno per produrre kimchi (recuperate ovviamente con mezzi poco leciti, tramite mercato nero), ma in via esclusiva per il suo locale e in cambio di un lauto stipendio. Un discreto salto di qualità per le due donne, che dopo aver vinto a fatica le rimostranze del solito Yoseb (anche perché insieme le due donne avrebbero guadagnato più di lui in fabbrica) cominciano la loro avventura nel mondo di Masterchef.

Con l'avanzare della guerra però le cose cominciano a farsi difficili anche al ristorante e Kim Chango è costretto a chiudere. E' a questo punto che Sunja viene avvicinata da Hansu, che si rivela essere il vero proprietario del ristorante, il quale le dice di aver sempre vegliato sulla sua famiglia dal momento del suo arrivo in Giappone.
First reaction: Shock.
Da uomo d'affari invischiato col crimine qual è, Hansu è in possesso di informazioni riservate che vanno oltre la propaganda governativa, e sa che il Giappone sta perdendo la guerra nonostante lo neghino con la consueta testardagine. Bisogna aspettarsi da un momento all'altro i bombardamenti alleati. Convince qundi Sunja e la cognata a trasferirsi con i bambini in una fattoria fuori città (dove riuscirà a portare anche la madre di Sunja), mentre Yoseb viene "promosso" con un incarico di responsabile di fabbrica e meccanico a Nagasaki.
Sopravvissuto all'esplosione, resterà menomato a vita. 

Parentesina storichina 2:
Questo è anche un luogo
di cultura.
Zitti e imparate, bastardi.
Sempre più industrializzata e dedita a un'agricoltura intensiva per adempiere al suo ruolo di granaio dell'impero, la Corea viveva in funzione delle esportazioni a scopo bellico. Nel 1938 venivano coltivati 6 milioni di ettari di terreno, principalmente a riso data la miglior resa calorica, ma il riso bianco (più pregiato e nutriente) era molto costoso e quindi riservato ai soli giapponesi.
Si assistette a un esodo di massa verso le città, che unito a un aumento demografico malthusiano (da 14 milioni del 1910 a 25 nel 1944) portò a un rifornimento pressoché illimitato di forza lavoro a basso costo nelle fabbriche giapponesi. 
Negli anni della guerra molti uomini vennero deportati in Giappone per essere impiegati nelle fabbriche e nell'esercito, e le coreane usate come "donne di conforto" in appositi bordelli per soldati (figure dimenticate dalla storia e passate agli onori della cronaca solo a partire dagli anni '90), il tutto in linea con una "politica di assimilazione totale" che mirava a rendere Corea e Giappone una cosa sola ma sempre nell'ottica della superiorità giapponese.
Diceva all'epoca il governatore generale Minami:
"I coreani sono, in base alla visione del mondo, ai rapporti umani, agli usi e alla lingua, un popolo completamente diverso. Perciò il governo giapponese deve pianificare la politica coloniale nella piena consapevolezza di questo fatto. I giapponesi, ai quali i coreani hanno guardato ogni volta, devono essere sempre qualche passo avanti. Allora i giapponesi sono chiamati a istruire e guidare sempre i coreani, e questi devono seguire con riconoscenza ed obbedienza i Giapponesi che marciano avanti.
A partire dal 1938 venne vietato l'uso anche privato della lingua coreana, e venne bandito l'hanbok
Dal 1940 i nomi coreani vennero convertiti in giapponesi (pratica a cui i residenti in Giappone erano costretti al momento dell'ingresso nel paese), senza il quale non si poteva lavorare, ricevere sussidi o recapiti postali.

Nel frattempo sul fronte cinese con la collaborazione degli Stati Uniti furono addestrate unità speciali di combattenti coreani allo scopo di riconquistare e liberare la Corea (ma al momento di passare dalle parole ai fatti di indipendenza della Corea non si parlerà manco per sbaglio) al fianco degli Alleati, a cui si unirono emigranti e disertori.

Il giorno della capitolazione del Giappone, che pose fine al periodo coloniale, circa 2 milioni e mezzo di Coreani vivevano in Giappone: più del 30% delle vittime dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki furono lavoratori forzati: 40.000 su 140.000 morti e 30.000 vittime delle radiazioni.
Le principali compagnie giapponesi ad aver usufruito di questi immigrati, Kajima Gumi, Naji-Fujikoshi, Mistubishi e Nippon Steel Corporation, non solo non riconobbero mai i loro crimini verso i coreani ma furono addirittura risarcite dal governo per la perdita di manodopera subita dopo la partenza dei coreani alla fine della guerra.
*Fine parentesina storichina 2*

La famiglia Baek torna a Osaka, dove Noa e Mozasu riprendono gli studi: pur lavorando come contabile a tempo pieno e senza lasciarsi scoraggiare da un primo fallimento Noa supera l'esame di ammissione alla prestigiosa università Waseda a Tokyo mentre Mozasu, per il quale la scuola è più un peso che altro, finisce a lavorare per Goro, un uomo allegro e onesto che gestisce una sala pachinko vicino alla bancarella di Sunja. Si innamorerà di Yumi, una sartina di umili origini che sogna di abbandonare un paese che non sente casa e andare a vivere in America.
I due si sposano e hanno un figlio, Solomon.
Dopo qualche anno Yumi muore, investita da un pirata della strada.
Noa nel frattempo vive il tempo delle rivelazioni inaspettate: scopre infatti non solo di essere il figlio di Hansu, ma essendo un universitario studioso e molto arguto scopre anche che Hansu è un coreano che ha tanti soldi perché è invischiato con la yakuza.
Big shock.
L'idea di non essere figlio di un uomo perbene ma di avere in corpo il sangue sporco di un delinquente e di essere destinato a diventare uno di quei coreani brutti, puzzolenti e criminali tanto odiati dai giapponesi, lo sconvolge al punto da abbandonare l'università e far perdere le proprie tracce alla famiglia.

Nel Terzo Libro (1962-1989), l'ultimo, dove le cose cominciano ad avvicinarsi all'inevitabile epilogo, a farla da padrone è la generazione di Noa, che ha trovato rifugio a Nagano dove ha cominciato a farsi strada nel mondo del Pachinko e ha rinnegato le proprie origini coreane fingendosi un giapponese che lavora in un'azienda che assume solo onesti lavoratori giapponesi, trovando una bella e brava moglie giapponese che gli ha dato tre pucciosi figlioli giapponesi. Mozasu, che nel mondo del Pachinko ha fatto i soldi veri, frequenta Etsuko, una donna giapponese divorziata con un passato da accompagnatrice, e può dare a Solomon la migliore educazione possibile, una che lo porti lontano da quel paese, magari in America come desiderava sua madre, tra gente più aperta di mente.
La guerra è ormai alle spalle, ma non per i Baek.
Non per i coreani.

*

IMPRESSIONI SPARSE

Pachinko è un libro che normalmente considererei una di quelle crudeli e infinite martellate alle parti basse, che di solito nel mio caso fanno il giro e diventano una comica. Se poi la "comica" che fa da contorno al drammone patetico è un tragico avvenimento storico reale se mi vede sghignazzare la gente la prende a male e mi sfancula perché crede stia ridendo della tragedia storica.
Spoiler: non mi serve un giorno dedicato o il film triste del cazzo per ricordarmi che c'è stata la tragedia storica X per cui essere triste, e non sto ridendo della tragedia storica.
Parrebbe scontato, e invece no.

Ora, fortunatamente tanto per cambiare non è questo il caso, anche se non ci troviamo nemmeno di fronte alle cose tragicomiche che di solito, visto che sono fatta a rovescio, mi scatenano la lacrima prepotente. 
Pachinko è un drama fatto e finito in cui l'infelicità regna sovrana (ma nella sigla dell'omonima serie tv tutti ridono e ballano, forse per dare una gioia allo spettatore, ma soprattutto agli attori che altrimenti si dimenticherebbero cos'è la felicità).
Ma anche se questa famiglia dovrebbe andare in pellegrinaggio a Lourdes e il rischio di esagerare con le sfighe e passare dal drama storico alla soap opera è a un passo, il grande talento di Min Jin Lee per quel che min riguarda è non superare mai quella linea. E' impietosa con i suoi personaggi (perché è la Storia ad essere impietosa con gli esuli di qualsiasi tempo ed etnia) ma mai in modo gratuito, esagerato o crudele; con un piglio alla Jane Austen la voce narrante resta sullo sfondo con una delicatezza rara, non prendendo mai posizione né giudicando i personaggi, per quanto ai nostri occhi possano comportarsi in modo più o meno abietto, amorale o essere crudeli e ingiusti.
Tranne Isak, perché Isak ha l'asticella ad altezza "odore di santità".

La narrazione è cruda ma non indulge mai nel morboso.
Anzi, a più riprese si ferma proprio al momento pruriginoso che di solito fa fare i seghini ai sensibiloni amanti del drama soap operistico lasciando al lettore il compito di tappare i buchi e di dar voce ai non detti, non lesinando lunghi e frustranti balzi temporali.
Qualcuno potrebbe trovarlo irritante.
A me piace essere trattata da essere senziente e non da bambino poco sveglio da tenere per mano per tutto il tempo spiegandogli le cose per filo e per segno.

Un altro talento dell'autrice per quel che mi riguarda è quello di riuscire a scrivere una saga familiare di quasi 600 pagine (che scivolano che è una bellezza, come Homer oleoso 👉), inzepparla di decine di personaggi, e renderli tutti indimenticabili. 
Io che sono notoriamente una persona che fatica molto a seguire i romanzi zeppi di personaggi al punto da dovermi tirar giù degli schemini per ricordare chi minchia è chi mi sono ritrovata nella felicissima situazione di ricordare da sola, senza consultare Wikipedia o maledire divinità a caso, personaggi apparsi anche 50 pagine prima.

Oltre ad essere indimenticabili, quelli tratteggiati dalla sapiente penna di Min Jin Lee sono anche personaggi a cui è estremamente facile affezionarsi. Figure umane, fallibili, né buone né cattive, animate dal desiderio di sopravvivere e di trovare un posto nel mondo, ma soprattutto di trovare un'identità, sballottati come sono tra un Giappone che li rifiuta e li tratta da stranieri nonostante alcuni come Noa, Mozasu o Solomon siano nati e cresciuti lì, e una Corea che non è più casa.
Una Corea che nemmeno esiste più.
Per quanto poi risulti difficile capire le posizioni o il modo di pensare di certi personaggi con la nostra sensibilità di lettori occidentali del XXI secolo, questa sensazione non sfocia mai nell'idea di avere davanti una macchietta desueta o ridicola, o una figura esageratamente spiacevole messa lì solo per far risaltare in positivo il protagonista di turno. Semmai mano a mano che arriviamo a conoscere il personaggio che inizialmente ci sembra odioso o scostante o testa di merda, a farla da padrone sarà un moto di profonda empatia.

Se Yoseb può risultare (e in effetti è) l'archetipo della scimmia alfa specie in confronto con quel santo di suo fratello, uno di quegli uomini che preferirebbe mantenere l'orgoglio di maschio che avere cibo in tavola, non manchiamo mai di avvertire il profondo affetto che lo lega a tutti i membri della sua famiglia (compresa la cognata Sunja e quel nipote che sa non essere figlio di suo fratello).
Ed è l'amore ad averla sempre vinta sull'orgoglio.
Mai una volta dimenticherà che la sua priorità è la felicità e il benessere della sua famiglia, ma soprattutto della sua compagna, nemmeno nei momenti di maggior abbruttimento quando sarebbe facile per l'autore indulgere in scene melodrammatiche da telenovela argentina (momenti da cui Min Jin Lee ci tiene alla larga con la consueta delicatezza). Sbuffa, si arrabbia, ma alla fine cede il passo senza mai imporre la sua autorità di capofamiglia. E quando sentiamo dire a Kyungee che brav'uomo sia suo marito e quanto l'abbia amata (lei, una donna che non è riuscita a dargli dei figli e avrebbe avuto tutto il diritto di ripudiare), non possiamo fare altro che crederle.

Dramatization
Se Hansu è un uomo della malavita che ha costruito la sua fortuna con mezzi poco leciti e incarna lo stereotipo nipponico del coreano piantagrane e disonesto, se è in effetti un marito di merda che corrompe una giovane innocente e che lo venera senza curarsi minimamente del doppio standard morale previsto per una donna perduta e un uomo "farfallone", è anche una persona piuttosto onesta con i suoi collaboratori e spinta per la maggior parte del tempo da sentimenti sinceri verso le persone che stima.
Tra lui e Sunja si sviluppa un rapporto complesso.
Sunja non dimenticherà mai il suo primo amore, ma resterà sempre fedele a Isak, l'uomo che l'ha salvata da un destino di donna perduta peggiore della morte. Hansu è un uomo sicuro di sé, pieno di risorse, autoritario ma paziente, intelligente, verso il quale una popolana di provincia non può che provare rispetto, ma al tempo stesso è una bomba pronta a esplodere sulla serenità della sua famiglia, una spada di Damocle che pende sulla sua testa ma soprattutto su quella del giovane Noa.
Dal canto suo Hansu è affascinato da Sunja, che condivide con lui un passato di privazioni e incarna tempi più poveri, forse, ma più semplici e mostra un'orgoglio e una rettitudine morale che ammira. Di sicuro prova affetto e orgoglio per Noa, il suo unico figlio maschio, un ragazzo intelligente, onesto e lavoratore. Nel corso di tutta la sua vita smuoverà mari e monti per proteggere la sua famiglia coreana e fare in modo che non manchino di nulla, rivelandosi solo quando strettamente necessario. Ma possiamo parlare di amore nel senso drama e romanzesco del termine? Vai a sapere.
Hansu è una figura a dir poco imperscrutabile.
E Min Jin Lee non è così indelicata da farci entrare così tanto nel suo cuore.

Hansu aiuterà Sanju e Noa ma anche Yoseb, Kyungee e Mozasu. Arriverà a far giungere dalla Corea la madre di Sunja durante la guerra (e sappiamo quanto costi un viaggio dalla Corea al Giappone, Yoseb aveva dovuto rivolgersi a degli strozzini per pagare il biglietto per suo fratello e la novella sposa). L'unico che non sarà oggetto dei suoi piani salvifici è proprio Isak, che guarda caso è l'incomodo: viene da chiedersi, a una certa, se con i suoi potenti mezzi avrebbe potuto tirarlo fuori dagli impicci e se non sia stata una scelta meschina e consapevole quella di farlo morire tra gli stenti in una prigione giapponese.
Difficile dare una risposta, anche in questo caso. Dove poteva arrivare la sua influenza di fronte alle autorità giapponesi, quanto poteva tirare la corda un uomo della Yakuza? Quanto lontano poteva portarlo il desiderio di proteggere Sunja e Noa? 
Mica Hansu è santo come Isak.
Di nuovo, con Hansu ci troviamo di fronte un personaggio non sempre facile da comprendere, ma complesso e affascinante. Specie a confronto con Isak, che però proprio nel suo essere un uomo sinceramente devoto e dotato di una grande forza e generosità non mi fa schifo al cazzo come la maggior parte dei personaggi buoni come il pane.

C'è poi Noa, che per onore e un cieco senso del sacrificio che lo ha guidato per tutta la vita, proprio nel momento in cui scopre di non essere figlio del pio Isak ma di un uomo di malaffare è pronto a lasciarsi alle spalle tutto, a smetterla di lottare ed eccellere perché i giapponesi finalmente lo valutino come un essere umano, e a sparire per diventare il giapponese Nobuo Boku. In questo insieme a Solomon rappresenta forse il personaggio più giapponese del romanzo. Ma, è proprio questo il punto, in quanto stranieri né lui né (come vedremo) Solomon saranno mai percepiti come giapponesi.
O come persone perbene.

Pachinko è un romanzo che non parla solo di famiglia ma anche e soprattutto di identità, di chi non ha patria e cerca un posto da chiamare casa.
Se per Noa la via dell'integrazione passa per il comportarsi due volte meglio dei giapponesi e lavorare tre volte tanto (fino a che la percezione della futilità di quegli sforzi non finisce per spezzarlo), per Mozasu, che diventa un imprenditore di successo nel settore del pachinko, l'integrazione passa per denaro e potere e conduce fuori dal Giappone.
Ritiene, proprio come Noa, che il Giappone sia irrecuperabile e la loro percezione dei coreani non cambierà mai: ma se i coreani della sua generazione non possono lasciarsi alle spalle l'unico paese che possano chiamare casa né tornare in una patria che li considera altrettanto stranieri, auspica che la strada per la felicità e l'autentica integrazione di suo figlio risieda a Occidente. Solomon brilla negli studi, frequenta le migliori scuole internazionali in Giappone, frequenta la Ivy league in America, si fidanza con una coreana nata in America, ottiene la laurea con ottimi voti e trova un posto onorevole e ben retribuito nella sezione Giapponese della British Bank, settore acquisizioni.
Ma persino tra gli stranieri resta un coreano.

Il messaggio finale però, pur non apertamente ottimistico, non è nemmeno privo di speranza. Solomon a differenza di suo zio, di suo padre e della sua fidanzata americana che non capisce perché si ostini a difendere questi stronzi di giapponesi, si rifiuta di arrendersi all'odio e al pregiudizio.
"E poi tutta quella storia che il Giappone era il male. Era pieno di stronzi, certo, ma gli stronzi c'erano dappertutto. Kazu era un fetente, e allora? Era una brutta persona ed era giapponese. Ma forse lo era diventato proprio frequentando l'università in America. Anche se su cento giapponesi cattivi ce ne fosse stato uno solo buono, Solomon si rifiutava di generalizzare. Etsuko era come una madre per lui; il suo primo amore era Hana; e anche Totoyama era come uno zio per lui. Erano giapponesi tutti e tre eppure erano brave persone.
In un certo senso pure lui era giapponese, anche se i giapponesi non lo consideravano tale. Phoebe questo non lo capiva. L'identità di una persona non dipende solo dal sangue."
In cosa credere allora? A cosa aggrapparsi se tutti perseguono i propri interessi (in tempo di guerra come in pace) e l'identità è un concetto fumoso e sfuggente, se nemmeno all'interno della propria gente o fuori dal Giappone si ha la certezza di essere al sicuro?
Alla famiglia. Al pachinko.
Il pachinko diventa, oltre che l'unica cosa concreta e via di riscatto sociale nella vita dei Baek e un fattore di identità familiare, l'unico legame concreto tra padre e figlio, una metafora della vita: una sala piena di macchinette in cui i proprietari piantano dei chiodini in grado di deviare la traiettoria delle palline a loro piacimento. In tutta la sala ci sono solo un pugno di macchinette che permettono al giocatore di vincere, e tutto sta nel ritrovarsi davanti per caso quella giusta.

Nonostante Pachinko sia un romanzo storico la Storia (quella con la s maiuscola) scorre sullo sfondo, come un fiume tranquillo, senza mai toccare i protagonisti se non di sponda (persino all'esplosione atomica di Nagasaki vengono dedicate poche righe distratte). 
A differenza di quanto accade in altri romanzetti del cazzo in cui l'autore si affanna a fare la pagina Wikipedia (quello è il mio compito) o a far interagire i suoi personaggi (di qualunque estrazione sociale essi siano) con tizio famoso di turno per far vedere che a scuola stava attento, i protagonisti di Min Jin Lee sono emeriti signori nessuno, e com'è giusto che sia a nessun personaggio storico di spicco frega nulla di loro.
Lo scopo dell'autrice è andare oltre la Storia e indagare i sentimenti umani, dando spazio all'amore, che fa da collante in un mondo allo sbando, il tutto con rispetto e delicatezza rari. Menzione di merito a questo proposito per i suoi personaggi femminili, di cui ammiriamo sempre la forza anche se relegati in ruoli secondari e posizioni sottomesse.
Donne non solo votate al sacrificio ma che solidarizzano.
Donne che sbagliano ma non vengono per forza punite dal destino (aka, dalla penna di un autore bigotto che vuole insegnare al lettore che se vai in giro a darla via non sei figlia di Maria), o di contro donne irrimediabilmente perdute ma comunque meritevoli d'amore che pagano lo scotto dei loro errori e lo accettano con pacata rassegnazione senza che l'autrice neanche per un momento ne minimizzi, giudichi o di contro santifichi con piglio paternalistico la sofferenza.

*

IN CONCLUSIONE. . .

Pachinko è stata un'esperienza straordinaria, e una piacevole uscita dalla mia zona di confort. Un dramma che non è una martellata alle parti basse e non scade nel becero, un romanzo storico che non diventa un bignami del liceo e non si scatena con le forzature e le stronzate, una finestra sul razzismo che non è discalica, retorica e stronza ma nemmeno permeata di quel cinismo superficiale del cazzo che oggi vende.
C'è speranza per il futuro ma non cieco ottimismo.
E anche noi, proprio come i personaggi del romanzo, ci barcameniamo senza meta alla ricerca di un'identità (che non per forza corrisponde al sangue o alla nazione che ci ha dato i natali), ci sforziamo senza che per forza le nostre fatiche vengano ripagate o che la nostra fiducia venga ricambiata e possiamo sperare al massimo che le nostre scelte ci portino davanti alla macchinetta del pachinko vincente.

Giudizio finale:

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