Autore: Ling Ma
Traduzione: A. Mioni
Edizione: Codice edizioni
Pagine: 348
Anno: 2019
Traduzione: A. Mioni
Edizione: Codice edizioni
Pagine: 348
Anno: 2019
Premesse:
Da ben prima della pandemia vengo colta a intervalli regolari dalla (termine mai come in questo caso appropriato) febbre del post-apocalittico, con una particolare predilezione verso la figura dello Zombie. Nello specifico lo zombie di Romero che si fa metafora della massa acefala e famelica figlia del capitalismo (visione resa ancor più esplicita dai "morti che non muoiono" di Jarmush che persino da infetti non rinunciano ai loro feticci risultando più ridicoli che minacciosi, immagine che mi è subito saltata alla mente nel corso della lettura di questo romanzo che il film lo precede di appena un anno. Coincidenza divertente), non quei cazzo di centometristi portati su schermo da Snyder.
Ho sviluppato insomma un gusto per il post apocalittico metaforico, quello che usa il tema della fine della civiltà come espediente per criticare il quotidiano alienante dell'epoca moderna. Gusto che la cino-americana Ling Ma bontà sua asseconda con il suo romanzo d'esordio, con l'aggiunta di un punto di vista un po' particolare, quello di un'immigrata cinese in America, che è (ammicco ammicco) la morte sua. In questo, magari chi a differenza mia preferisce il post apocalittico più ignorantello dove suore e avvocati devono resistere alle orde bestiali o dove l'apocalisse zombie diventa una scusa per fare le corna al marito e poi si piange potrebbe non apprezzare.
Candace Chen è figlia di immigrati cinesi espatriati grazie a un permesso di studio nel periodo di "Riforma e apertura". L'autrice non la butta in politica: la cornice storica è vaga, con giusto un paio di riferimenti agli scontri di piazza Tiananmen e al successivo periodo di benessere del paese, fatti vissuti solo alla lontana da una famiglia che ha troncato i legami con il suo paese d'origine, se si escludono viaggi sporadici e cartoline di natale.
Specie Candace, che è arrivata in America a 6 anni e della Cina non ha che vaghi ricordi. Candace cresce ed esaudisce le aspettative genitoriali: laureata in una buona università si ritrova in giovane età a lavorare a Manhattan presso una grossa casa editrice, la Spectra.
Responsabile del settore Bibbie, è molto apprezzata dai piani alti per la serietà, la dedizione al lavoro, la bravura nel gestire le emergenze e la capacità di interagire coi fornitori (ovviamente tutti situati in area asiatica per abbattere i costi di produzione). E' solo questione di tempo, le dicono, e sarà trasferita nel settore Arte, il più ambito della Spectra.
Un sogno per chi come lei ha studiato fotografia e moda.
Ma il sogno di questa self made china girl viene infranto dall'arrivo della Febbre di Shen, un ceppo aggressivo di infezione fungina originatosi nella regione di Shenzen, in Cina (zona che Candace, come vedremo, ha visitato spesso per lavoro).
Come si manifesta?
"Nelle sue fasi iniziali la febbre di Shen è difficile da individuare. I primi sintomi includono mal di testa, respiro faticoso e spossatezza. Poichè questi sintomi sono spesso scambiati per un raffreddore comune, di rado i pazienti sono consapevoli di aver contratto la febbre di Shen. A volte possono sembrare produttivi e sono ancora in grado di eseguire le normali attività quotidiane. Tuttavia, ben presto i sintomi iniziali peggiorano.
I sintomi avanzati comprendono segni di malnutrizione, scarsa igiene personale, lividi e problemi di coordinazione. I movimenti del paziente possono sembrare goffi e faticosi. Alla fine, la febbre di Shen conduce a una perdita di coscienza fatale. Dal momento in cui la si contrae, i sintomi possono svilupparsi in un arco di tempo compreso tra una e quattro settimane, a seconda dello stato del sistema immunitario del paziente."
Considerato inizialmente come un mero focolaio, qualcosa di facilmente contenibile grazie a politiche di isolamento dei contagiati (complici i bollettini governativi cinesi che minimizzano la situazione del paese - e il senso di deja vu' pizzica), la febbre di Shen si espande a livello globale determinando il crollo della civiltà.
Ma Candace, schiava della propria routine casa-lavoro (esattamente come gli "zombie" malati di febbre sono schiavi della stessa identica routine che li porta a compiere gesti per loro significativi in loop ossessivo, finché il corpo non cede) ma soprattutto abbagliata dalla prospettiva che possa esserci ancora un post-emergenza in cui i suoi sforzi per tenere in piedi la Spectra verranno ricompensati dai piani alti dell'azienda, resta a New York assistendo alla morte lenta e inesorabile di una città che, da straniera senza famiglia e senza radici, non avverte come casa.
Solo quando ormai è troppo tardi, ma soprattutto quando il suo contratto con la Spectra giunge al termine, Candace si decide ad abbandonare la città, decidendo di unirsi per necessità a un gruppo di sopravvissuti miracolati quanto lei guidati da un certo Bob: ragazzi diretti verso la Struttura, un luogo in cui potranno cominciare a ricostruire le basi della civiltà.
Parrebbe l'inizio di una stagione di The Walking Dead, e invece no.
IMPRESSIONI SPARSE
Febbre è un romanzo che porta avanti il tropo del dead man walking come metafora di un'umanità alienata e schiava del consumo oltre che del lavoro: non a caso Dawn of the dead di Romero era ambientato in un centro commerciale. Sempre non a caso la Struttura verso cui Bob sta guidando il suo gruppo di sopravvissuti altro non è che un centro commerciale. Un centro commerciale di cui tra l'altro Bob possiede una quota societaria.
A guidare Bob verso la meta finale del viaggio non sono quindi motivazioni logistiche (il centro commerciale non è particolarmente sicuro e non è ricco di risorse come si pensava - anzi, i mobili per le loro abitazioni improvvisate in negozi di tendenza devono andare a prenderli nel corso di un raid nel vicino Ikea - le provviste sono poche e razionate, non sembrano esserci altri insediamenti umani nelle vicinanze a cui unirsi) o altre motivazioni razionali. E' più che altro il bisogno di tenere sott'occhio il proprio investimento, oltre che la sterile nostalgia verso tempi passati in cui Bob trascorreva i pomeriggi a bighellonare proprio in quel centro commerciale.
Anche la cosiddetta ricostruzione della civiltà attuata dal gruppo di sopravvissuti si riduce a una serie di regole arbitrarie dettate da Bob, che custodisce le chiavi delle automobili e delle risorse, decide i compiti per la giornata, premia e punisce, toglie o restituisce il privilegio di far parte del gruppo, e costringe tutti gli altri a seguire una serie di sterili ritualità (impossibile in quest'ultimo caso non cogliere il parallelismo con la ritualità ossessiva dei morti). Il resto del gruppo, sopravvissuti come Candace a una società che chiedeva di essere loro performanti e devoti all'azienda, pur non stimando Bob si accapigliano per i suoi favori e temono la sua ira, obbedendogli ciecamente.
Si è persa, sembrerebbe, la voglia di lottare.
Di nuovo, emblematico il parallelismo coi malati. La massa dei non morti non è aggressiva né ostile, al contrario sono i vivi ad aggredirli, mettendo pietosamente fine alle loro sofferenze (a decidere che il gesto di ucciderli è pietoso dal momento che il malato non può dare il consenso ovviamente è il solo Bob, che in maniera piuttosto ipocrita usa l'omicidio come una sorta di rito di iniziazione): si limita a ripetere i rituali importanti, come radunarsi attorno alla tavola per una cena in famiglia, mandare e-mail di lavoro su progetti chiusi mesi o anni prima, piegare magliette in una boutique. Se lo zombie pur essendo il corpo clinicamente morto si aggrappa alla vita e segue i bisogni biologici primari di nutrirsi e moltiplicarsi (il morso "dà vita" a un nuovo non morto), il malato di febbre, proprio come i vivi che seguono Bob e la stessa Candace, annulla se stesso in una ritualità sterile fino alla morte.
Manca un senso.
Mancano direzione e scopo, sia a livello individuale che sociale: non ha senso il solitario peregrinare senza meta di Candace che inizia tra le strade di New York e termina tra quelle di Chicago; non ha senso la sterile ritualità cui Bob costringe il gruppo; non ha senso che un'umanità al collasso si preoccupi di tenere aperte le aziende e organizzare settimane della moda, o che vengano garantiti i servizi di trasporto pubblico, taxi e igienizzazione in una città deserta. Solo distrattamente lo sguardo di Candace si posa su queste persone, che sono (e quando te sbagli) immigrati, ex soldati, e altri disperati senza radici che restano a tenere il forte mentre le alte dirigenze si sono già messe al sicuro ai primi segnali di pericolo.
Eppure, quanto sa di già vista tutta questa insensatezza.
Se sappiamo che questo ceppo fungino mortale nasce in aree in cui gli operai col beneplacito delle aziende occidentali (e nel caso della Spectra parliamo di una casa editrice che produce Bibbie - l'ironia è palpabile) sono sfruttati all'osso e vivono in condizioni igieniche e di lavoro malsane, cosa che porta al proliferare di agenti patogeni potenzialmente mortali (un pericolo tutt'altro che lontano - in questo, ovviamente il romanzo si può leggere anche in chiave di critica al neoliberismo selvaggio), non sappiamo in che modo ci si possa difendere dal contagio.
A nulla valgono quarantene, controlli agli aereoporti, disinfestazioni, evitare il contatto umano, indossare le mascherine FPP3. Non ci sono regole da seguire come nei film di zombie, non c'è salvezza, non c'è modo di scamparla: si può fare tutto per bene, stare attenti, prendere precauzioni e ammalarsi, o si può essere totalmente incuranti, bazzicare ambienti umidi e malsani e sopravvivere. Con buona pace delle teorie di predestinazione divina portate avanti da quel pirla di Bob.
Ad un altro livello Febbre è anche un romanzo che parla di casa e identità.
Candace ne è priva: immigrata in terra straniera, ha perso il legame con la sua terra d'origine, l'uso della sua lingua madre, i suoi genitori. La sua stessa madre ha dovuto rinunciare a tutto per seguire il marito oltreoceano e garantire alla sua famiglia migliori opportunità, e questo l'ha portata a riversare sulla figlia tutte le proprie ambizioni frustrate.
Allo stesso tempo, smarrita in uno stile di vita vuoto e alienante in una città che tende a dimenticarsi di te (non a caso il titolo originale è Severance, ovvero separazione), Candace non è stata in grado di costruire nulla di nuovo che potesse compensare la sua perdita identitaria. Candance è la realizzazione dell'american dream, ma scavando appena sotto la superficie quello che ne deriva è un guscio vuoto.
Candace è letteralmente il suo lavoro.
Non ha amici ma colleghi di lavoro. Il suo (ex) ragazzo Jonathan è un uomo che vive dello stretto indispensabile (a costo di continue rinunce e sacrifici però, pensa Candace che quelle privazioni le ha vissute per via della propria condizione di immigrata) e che rifugge il sistema capitalistico della Grande Mela a cui lei non confiderà nemmeno di essere incinta. Dei suoi hobbies conosciamo solo un'ossessione per la skin care e per i prodotti di lusso (il romanzo, in linea con questa critica ad un capitalismo schizofrenico, è zeppo di riferimenti a brand di lusso), ma sono più che altro ossessioni ereditate da sua madre.
Proprio come i malati di febbre di Shen (e proprio come i suoi compagni di viaggio), Candace è definita da una routine alienante scandita dal tragitto casa-ufficio.
Mi alzai. Andai a lavorare al mattino.
E' un incipit che cadenza l'inizio di molti capitoli del romanzo.
La routine di Candace non si interrompe neppure in piena pandemia, mentre la città le muore intorno. E quando raggiungere il lavoro diventerà troppo disagevole causa mancanza di servizi e manutenzione, la scelta di Candace sarà andare a vivere negli uffici deserti della Spectra per non venir meno agli impegni aziendali dal momento che, come dirà lei stessa, non ha nessun posto dove andare né una famiglia da cui attingere consolazione e protezione.
IN CONCLUSIONE. . .
In Febbre si intrecciano con eleganza ed estremo equilibrio capitoli pre e post collasso, la storia personale di Candace e quella, forse ancor più paradossale e tragicomica, della fine del mondo, filoni narrativi accomunati dal punto di vista estraneo (e non solo perché esotico, che rappresenta il vero punto di forza del romanzo dal momento che la metafora dell'apocalisse come critica al capitalismo come abbiamo visto non ha nulla di nuovo) di una protagonista peculiare, che assiste al crollo della civiltà (arrivando a scattare foto di quanto la colpisce della pandemia per postarle sul suo blog come sorta di memento funebre a uso e consumo di quelle comunità in cui la febbre di Shen ha colpito meno) come se questa non la riguardasse.
La narrazione scorre liscia, senza annoiare.
Occorre però un po' di presenza mentale per destreggiarsi tra le linee narrative.
Il romanzo colpisce, e colpisce duro, facendosi sia finestra critica sul presente che sorta di diario intimista (impossibile non cogliere dei parallelismi tra Candace e Ling Ma). Manca, e la cosa per quel che mi riguarda è un punto a favore del romanzo dal momento che odio i finali a cazzo di cane alla "e trovarono una cura/e ricostruirono la civiltà grazie ai nostri coraggiosi ragazzi in divisa", un finale consolatorio, almeno per quel che riguarda il destino dell'umanità. La società perfetta di Bob collassa, le strade di Chicago sono abbandonate quanto quelle di New York, dando a intendere che gli Stati Uniti siano ormai terra morta e che Candace possa essere l'unica sopravvissuta alla pandemia. Nelle ultime pagine del romanzo però la troveremo cresciuta: più umana, più consapevole di sé e finalmente desiderosa di creare un legame con qualcun altro. Nello specifico con Luna, la bimba che porta in grembo e di cui solo negli ultimi momenti trascorsi sotto la protezione di Bob ha riconosciuto come individuo, dandole un nome.
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