venerdì 14 agosto 2020

[Recensione] AGENTE 007 - UNA CASCATA DI DIAMANTI

Anno
: 1971
Regia: Guy Hamilton
Soggetto: Ian Fleming
Sceneggiatura: Richard Maibaum, Tom Mankiewicz
Cast: Sean Connery, Charles Gray, Jill St. John, Lana Wood Bernard Lee, Desmond Llewelyn

Un colpo di spugna...
Le menti più attente avranno sicuramente notato nella locandina qui a fianco il nome di una nostra vecchia conoscenza, che con una sottile mossa di marketing da parte della distribuzione a momenti è scritto più grande del titolo.
Sì, avete letto bene, Sean Connery.
Il grande irreprensibile Sean "non vestirò mai più i panni di James Bond" Connery torna all'ovile dopo l'abbandono di Lazenby (e il rifiuto di diversi altri potenziali interpreti, tra cui Adam "Batman" West, e un all'epoca troppo fuori forma Michael Gambon), con un tale potere contrattuale da stringer letteralmente per i coglioni la produzione. Per vestire di nuovo i panni della famosa superspia inglese un Connery ormai visibilmente invecchiato e appesantito e con indosso un parrucchino ancora più improbabile dei precedenti, pretende una paga da record per gli standard dell'epoca (1,2 milioni di dollari) e la produzione di due film di sua scelta.
Dei due verrà realizzato solo Riflessi di uno specchio scuro di Sidney Lumet (1973), in quanto l'altro che avrebbe voluto realizzare, una versione tutta a cast scozzese del MacBeth, era già in cantiere e vedrà la luce nel 1971 per mano di Roman Polanski.

*

Dimentichiamoci l'umanità e il realismo del precedente film.
Dimentichiamoci qualsiasi pretesa di continuity.
Dimentichiamoci Lazenby e Diana Rigg novelli sposi, le lacrime impotenti di un uomo mentre stringe a sé il corpo esanime dell'unica donna amata davvero, la sofferenza di un eroe che ha salvato il mondo pagando però un prezzo troppo alto.
A noi del 1970 i sentimenti ci fanno schifo.
Lasciamo a quelle fighette con la pipa da Sherlock Holmes e i colletti merlettati le lacrime e la costruzione psicologica, noi siamo nel pieno delle lotte femministe, studentesche e operaie, si va in strada a farsi menare dalla pula e abbiamo l'esercito in strada, siamo contro il Vietnam e il nucleare e vogliamo un Bond uomo vero che lascia in giro la scia di testosterone come le lumache.
E alè, pronti!
La storia si apre con la solita parete fatta di carta di riso e bambù di vetro attraverso cui viene scaraventato un povero cristo. Volano schiaffi, calci, e una scaraventata di peso nel cortile stile buttafuori da discoteca.
Segue un concentrato di stereotipi di Il Cairo che subisce lo stesso delicatissimo trattamento e una fighina in bikini che viene non sedotta come ci aspetteremmo ma brutalmente strangolata col suo reggipoppe.
Bond è in cerca di Blofeld, e non ha il tempo di essere un gentiluomo. Neanche produzione e regia hanno tanto tempo o voglia star tanto dietro a quel finale da fighetti con cui ci hanno lasciato in Al servizio segreto di Sua Maestà, quindi se la sbrogliano presto.
Tempo 5 minuti e Bond ha trovato il covo di cloni di fango di Blofeld (che a questo giro ha anche i capelli e il facciotto paciarotto di Charles Gray, che avevamo già incontrato in Si vive solo due volte, nel ruolo dell'agente MI6 in giappone Dikko Henderson. Una bella carriera), sommerge un suo clone sotto una valanga di melma tiepida, stacca le dita a uno sgherro con una trappola per topi nascosta nella scollatura come Jessica Rabbit e scaraventa il suo arcinemico in una vasca di fanghiglia bollente. La telecamera si sposta sul faccino trionfante di Bond che chiude con un sogghigno e un: 
"Benvenuto all'inferno, Blofeld..."
Insomma, abbiamo di fronte lo stesso Bond cazzoduro e smargiasso che abbiamo lasciato nella precedente fatica di Hamilton, Missione Goldfinger... Tracy non pervenuta. 
Realismo e finezze caratteriali non pervenute.
Si raggiunge il culmine di questo processo di damnatio memoriae nelle prime battute del film: Bond è in partenza in quel di Amsterdam per sventare un giro di compravendita illegale di diamanti e flirta con una Moneypenny vestita da controllore Trenord.
Bond: "Cosa posso portarti dall'Olanda?"
Moneypenny: "Vorrei un diamante... Con l'anello."
... Come scus?
Una persona ingenua che si ricorda che prima è esistito Al servizio segreto di sua maestà si aspetterebbe un momento cringe in cui Moneypenny si accorge di averla fatta fuori dal vaso, o un Bond che si separa da lei ma non con la solita gigionaggine.
La mascella tesa, lo sguardo distante.
A voler essere proprio fini qualche qualche nota di We have all the time of the world poteva addirittura risuonare in sottofondo...
Pfff, macchè.
"... Ti accontenti di un tulipano?"
E SVROOOOOOM, via, verso i quartieri a luci rosse e gli zoccoli di legno.
Da brava scimmia alfa, Bond si vergogna di aver avuto quell'umanissimo momento di sconforto al punto tale da eccedere in senso opposto per tutta la pellicola. Il film lo segue nei toni per tutto il tempo, facendosi eccessivo, testosteronico, cartoonesco (complice anche l'ambientazione: a questo giro gran parte del tempo lo passeremo a Las Vegas). E' anche il grande ritorno delle bondgirl inutili con i nomi del cazzo, come l'americana Tiffany Case (scatolina di Tiffany) e quel capolavoro anagrafico di Plenty O'Tool (letteralmente, mercanzia in abbondanza).
Oh beh, è stato bello finché è durato, addio e grazie per tutto il pesce.

Persino nel MOMENTO SIGLA si rimarca ancora una volta il desiderio di tornare a quella semplice e divertente pecionata che era Missione Goldfinger. La splendida Diamonds are forever (titolo originale del film) è infatti affidata di nuovo a Shirley Bassey (a cui venne chiesto di cantare una canzone sui diamanti come se stesse parlando di un pene. Delicatissimo). Sullo sfondo a questo giro ci accoglie il nome di Sean Connery in caratteri giganti e una giovane donna con un diamante di stazza importante sulla passera, più un discreto numero di micioni pelosi.
Già qui si capisce che voleremo altissimi.
Se poi in un film prodotto e diretto da inglesi ci ficchi dentro degli americani, il trash è garantito.
In Olanda Bond spacciandosi per un complice di nome Peter Franks entrerà in contatto con Tiffany Case (Jill St. John), una contrabbandiera professionista che lavora a sua insaputa per la S.P.E.C.T.R.E. Nel film ci viene rivelata l'origine del suo nome, essendo nata in una gioielleria Tiffany mentre la madre si trovava al suo interno a scegliere un anello.
Tiffany è la prima Bond Girl americana.
Quindi ovviamente deve essere volgare, inutile e stupida come una zappa.
Al di là delle mie preferenze personali che a questo punto saranno chiare in fatto di personaggi femminili, Tiffany risulta essere un personaggio costruito proprio male: allo stesso modo in cui, come traspare dai primi scambi di battute tra lei e 007, il sopra non corrisponde al sotto, gli sceneggiatori Maibaum e Mankiewicz sembrano non essersi rivolti proprio la parola e se Tiffany parte come una donna intelligente, sensuale e sicura di sé finisce ben presto a fare il ruolo della cogliona svampita che si ficca le musicassette in shorts attillati sperando che nessuno le noti e finisce sbalzata in mare dal rinculo della mitraglietta che tiene tra le braccia, un passettino alla volta. 
Al primo incontro con James ci tiene a ribadire che non esiste nessun signor Case ed è lei la persona con cui parlare di lavoro e che offre a Peter Franks di trasportare di nascosto un importante quantitativo di diamanti. Offrire da bere a Bond è una scusa per prendergli le impronte digitali e verificare la sua identità (fortunatamente un'invenzione di Q permetterà a Bond di non venire scoperto), perché con il lavoro che fa di certo non può permettersi di fidarsi del primo che passa.
Si mostra con scioltezza in biancheria intima non per sedurre ma in segno di dominanza, segno che debba essere una ragazza che sa come difendersi alla bisogna e molto sicura di sé.
Da qui in poi, il declino totale fino al tuffo in mare. 
Un'involuzione di cui però non incolpo né il personaggio (che era partito bene e se avesse continuato su questa linea ci avrebbe dato delle soddisfazioni, da brava discendente delle fiere pioniere del nuovo continente) né l'attrice (enfant prodige dell'epoca, non esattamente l'ultima delle stronze), ma un pessimo e pigro lavoro di sceneggiatura, che come al solito pensa che basti poggiare tutto sulle spallone maschie e possenti di Connery per tirar fuori un film decente.
Bond è talmente maschio e possente che a questo giro si limona da solo.
E non vogliamo spendere due parole sulla mente criminale della situa, Ernst Stavro Blofeld?
Spendiamole, dai.
Come cantavano i Queen, "Three is a magic number", e dopo il cartoonesco David Pleasence e il wannabe-conte finto sofisticato amante della figa Telly Savalas, a questo giro a interpretare il temibile capo della S.P.E.C.T.R.E ci ritroviamo il facciotto paciarotto e la folta chioma di Charles Gray, che qui sembra un po' Adolfo Celi...
... E qui un po' meno.
Nella mia personale classifica-interpreti se finora Pleasence rimane ancorato sul fondo, Savalas e Gray se la giocano alla pari, per motivi diversi: se adoro l'umanità greve di Savalas dietro la scorza di gentiluomo, quel suo sforzarsi di essere ciò che non è rincorrendo un titolo a cui non ha diritto e circondandosi di lussi e oggetti di una cultura che non gli è propria, amo altrettanto la cortesia raffinata di Gray.
Lui non appende agenti MI6 alle montagne né si sporca le mani insieme ai suoi sottoposti, cionondimeno chiede loro perfavore (e i suoi cloni, ci tiene a ribadire, sono volontari). La scienza non è mai stata il suo forte (Savalas invece pasticciava coi composti chimici), in compenso è bravo in economia: Acquisisce grandi quantitativi di diamanti con mezzi poco leciti, rubando l'identità del magnate americano Willard Whyte, non per immetterli sul mercato e abbassare i prezzi come si ipotizza a inizio film (l'ennesima strizzata d'occhi a quella marmotta che incarta la cioccolata di Goldfinger), ma per creare un letale raggio della morte con cui mettere in ginocchio il mondo.
Dei titoli nobiliari e delle amnistie se ne sbatte.
Pur non apprezzando personalmente il ritorno ai piani da cattivo dei cartoni animati (diciamola tutta, specie agli occhi di uno spettatore del XXI secolo, lo spettro della sterilità è molto più angosciante di un raggio laser spaziale), pur odiando il modo in cui come al solito si sta sputando sopra quella meraviglia del film precedente, adoro il modo in cui il rapporto tra Blofeld e Bond qui è diventato non più di rivalità e lotta all'ultimo sangue ma di vera e propria co-dipendenza, a la Sherlock e Moriarty.
Blofeld ha bisogno di Bond, e Bond di Blofeld.
"I nostri piccoli incontri mi divertono, signor Bond, anche se potenzialmente sono alquanto pericolosi", dirà a una certa Blofeld, e Bond, che ha appena assassinato quello che tra i due anche senza prova del nove del gatto chiunque un minimo attento aveva intuito essere il clone, sembra concordare almeno a livello inconscio. Il loro gioco a rincorrersi senza mai prendersi per davvero smette di essere un episodio di Grattachecca e Fichetto e assume una sorta di complessità di fondo: avere un avversario all'altezza del proprio genio che spinga ad alzare sempre l'asticella è stimolante, dà un senso alla loro vita di persone ricche e stanche della vita. A inizio pellicola Blofeld si era addirittura costruito un clone di James tutto da coccolare. E se questo non solletica la fertile fantasia di voi scrittrici di fanfiction yaoi lì fuori non so cos'altro vi ci vuole!
Io ve la butto lì...
... MA HA FATTO ANCHE COSE BUONE
Diamonds are forever ha la sfortuna di essere un film più caciarone, di puro intrattenimento, con una Bondgirl tra le più inutili mai concepite e con un Connery stanco e appesantito la cui interpretazione rasenta il comatoso dopo l'hype che mi aveva fatto montare il capitolo precedente, perché preso a sé non è un film che raggiunge le vette di cringe di Goldfinger (anche se ci prova) o ti rompe i coglioni  con la pro loco del Giappone come un Si vive solo due volte.
Anzi, diverte a più riprese.

WINT E KIDD
La risposta vintage a Jay e Silent Bob.
Nel romanzo omonimo appartengono alla Spangled Mob, una famiglia mafiosa del Nevada che metterà i bastoni tra le ruote al protagonista, nel film sembrano essere sicari al soldo di Blofeld, anche se non li si vede mai interagire in alcun modo e addirittura continuano a cercare di liberarsi di James e Tiffany anche dopo la sconfitta del villain. In più sono credo l'unica coppia dichiaratamente omosessuale del franchise, almeno nel periodo bondiano classico.
Ammazzano la gente e fanno da sollievo comico.
Sono talmente assurdi, fini a loro stessi e inutilmente macchinosi da farsi parodia. Uno sembra il Ken di Toy Story 2 (Bruce Glover), l'altro (il jazzista Putter Smith) il tenero Gigione: si fanno le battute sassy mentre fotografano una vecchia morta e mettono le bombe nelle finte torte alla panna. Però il loro lavoro sanno farlo e bene: il loro unico errore è stato cercare di andare in culo all'invincibile 007.

 BAMBI E TAMBURINO
Sì, davvero.
Scagnozze di Blofeld che uniscono letalità ed eleganza (ogni colpo sembra finire in uno scatto fotografico per una rivista di costumi da bagno), fanno la guardia al vero Willard Whyte di modo che a nessuno venga in mente di andarlo a trovare (di nuovo si noti la signorilità d'altri tempi di Blofeld, che non lo ammazza ma lo tiene prigioniero in una cella di lusso guardato da due avvenenti amazzoni).
Menzione di merito anche al prigioniero, miliardario con tendenze all'isolamento stile Howard Huges, talmente fuori dal mondo da non aver capito 1) di essere prigioniero 2) che qualcuno ce l'ha con lui 3) che quando ti sparano addosso di solito ci si sposta.
 IL MODULO LUNARE DA CORSA
► L'ELEGANZA
"Come rendere un razzo più fallico di quanto già non sia?"
"Mettiamogli la punta rossa!"
"GENIO!!"

IN CONCLUSIONE...
Diamonds are forever trasuda Stati Uniti, e per la vecchia Inghilterra America vuol dire ignoranza e cafonaggine, quindi il tono del film per forza di cose si adegua. E cosa grida AMERICA CAFONA più di Las Vegas, con le sue luci al neon, i miliardari pazzi che spariscono per anni dalle scene della ribalta e gli sceriffi corrotti da cui fuggire con un rocambolesco inseguimento alla Hazzard a bordo di una Ford Mustang scarlatta? Non manca neanche il disprezzo europeo sottile come il tronco di un baobab verso i cugini della terra dei liberi:
"Come vede signor Bond il satellite è attualmente sopra il Kansas, ma se distruggiamo il Kansas il mondo può non venire a saperlo per anni... Forse New York, con tutto lo smog e il traffico? ... No, gli daremmo la scusa per rifarla... Ah, Washington DICCI'... Perfetto."
Sipario.

E' un film pigro e poco impegnato (a cui Connery si adegua con una performance davvero sottotono: sembra più interessato a visionare mentalmente lo stato del suo conto in banca che a salvare il mondo), con una Bond girl ignobile e scene d'azione in cui raramente si percepisce il pericolo (eccezion fatta per la scena della bara che va a fuoco, se non fosse per il finale anticlimatico), che balla senza ritegno sulla tomba del suo predecessore. Ma la saga di James Bond non ha una continuity coerente, lo stesso Al servizio segreto di Sua Maestà troncava di netto coi predecessori, quindi mie preferenze a parte non è che possa pretendere chissà cosa da una pellicola che adempie al suo scopo, intrattenere e farmi fare sordide fantasie erotiche tra Bond e Blofeld. 
Una cosa però l'avrei pretesa.
Il rispetto dovuto alla buonanima di Tracy Bond, qui manco nominata di striscio: questo film fa alla sua memoria quello che la musicassetta di Blofeld fa a Tiffany Case.

Giudizio finale:
Tiene botta, intrattiene ma non brilla ed è un insulto al precedente capitolo della saga.
Connery sempre più improbabile nel ruolo, fa rimpiangere l'Indiana Jones de Il regno del Teschio di cristallo.
PRO: Forti vibrazioni yaoi.


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